Un viaggio che non ti stanchi mai di conoscere, ma non da turista, da viaggiatore.

di Giuseppe De Pietro

Dell’India nutro grande rispetto. Sento che affronterò un viaggio diverso dal solito, sperando che sia da un certo punto di vista,illuminante. Quello che non so, è in che modo e in quali tempi mi si presenteranno le situazioni che mi aspetto e che spero mi faranno vedere il mondo con occhi nuovi e diversi, che è poi lo scopo del vero e autentico viaggio.
L’India, così diversa che da sola può offrirvi tutto: un mondo così antico che conserva millenni di storia, di arte e di cultura; un mondo cosi permeato di religiosità che fa dei suoi Dei e delle cerimonie religiose una presenza costante nella propria vita. Un mondo dove passato e presente convivono, le industrie con i festival e le fiere con i satelliti lanciati nello spazio. L’esperienza di un viaggio in India non si può trasmettere appieno: dovete viverla direttamente, assaporarla con tutti i vostri sensi.

Sentirete nelle strade la fragranza del legno di sandalo o dei
gelsomini che il venditore vi offre con grazia, vedrete i picchi dell’Himalaya e le infinite spiaggie di Goa e della costa meridionale,gli atolli corallini e le acque interne del Kerala, i fiumi, i villaggi e le foreste tropicali. La diversità di razze, di culture, di linguaggi, di ambiente, disegnano in India scenari sempre diversi. Nel deserto
del Rajasthan vedrete processioni di cammelli che trasportano
pesanti carichi; nelle riserve vedrete tigri, leopardi, elefanti, uccelli di ogni sorta; lungo le strade incontrerete lente, indolenti vacche sacre. Gusterete un autentico té inglese nei grandi alberghi, sarete catturati dalla grazia delle danzatrici, vi unirete alla folla gioiosa che
celebra i suoi festival… gli splendori dell’India non hanno fine.
A dire il vero, non so nemmeno dove andrò, se non la città dove
atterrerà il mio aereo e quella da dove tornerò indietro. C’è un arco di tempo e di spazio da riempire istintivamente, andando dove mi portano il cuore e la voglia del momento. Mi appresto quindi a partire, con lo spirito di chi si presenta ad un appuntamento importante da viaggiatore e non da turista.
L’India ti aggredisce, aggredisce tutti i tuoi sensi e non puoi
nasconderti. Ti aggredisce la vista con la forza delle sue immagini e dei suoi colori sgargianti, ti aggredisce l’olfatto con odori a tratti evocativi e a tratti rivoltanti, ti aggredisce l’udito con lo strombazzare dei clacson suonati in ogni dove, ti aggredisce il gusto con i suoi sapori estremamente decisi. È pesante, pazza, sporca, malata, a volte stupefacente, molto spesso stomachevole.
Si vedono immagini di una tale forza che difficilmente le emozioni che suscitano saranno ripetibili in un altro paese. Queste incredibili immagini rischiano di diventare come una sorta di droga, senza la quale non ci si riesce più a stupire di nulla. Si dice che l’India, o la si ama o la si odia, ma non ti lascia indifferente. Io la sto amando e odiando contemporaneamente.

Mumbai è il più grande slum, o baraccopoli, dell’Asia con più di un milione di persone, praticamente vivono gli uni sopra gli altri. Mi aspettavo mendicanti, spacciatori e nullafacenti invece mi ha colto di sorpresa, una città nella città, che lavora, vive e sopravvive con orgoglio. La baraccopoli è divisa in zone: quelle miste, quelle dei musulmani,
quelle degli hindu e quelle di persone provenienti da determinati stati dell’India, specializzate nello svolgere alcuni lavori. I bambini sono amichevoli e solo poche persone chiedono l’elemosina agli stranieri che entrano nello slum. Quando alcuni lavoratori mi sono passati vicino, trasportando qualcosa, a testa alta e con sguardo fiero, mi hanno guardato dritto negli occhi per capire se fossi li perchè davvero interessato alla loro condizione o solo per soddisfare una morbosa curiosità.

Sono andato a Goa per rallentare il passo e prendermi il mio tempo in questo verdissimo stato dell’India dove la vita sembra scorrere su ritmi differenti: quello frenetico della musica goa e quello lento dei contadini e delle donne, che incedono adagio coi loro cesti sulla testa. È uno spettacolo unico assistere alle scene quotidiane di queste persone che lasciano alla natura, al giorno e alla notte, alle
stagioni, il compito di dettare i ritmi della vita. L’atmosfera è molto libera dove le persone si ritrovano e l’odore di charas persiste nell’aria. Mi trovo in uno stato d’animo splendido, in pieno possesso del mio equilibrio: in alcuni momenti sono pervaso da una gioia pura, senza ombre e senza motivazioni apparenti, di quelle che si provano solo da bambini. Dormo in un posto meraviglioso, di proprietà di una famiglia nativa del Goa, molto cordiale, come del resto, lo è la maggior parte della gente di questo piccolo stato.
Mangio in un ristorante tibetano appena fuori dalla porta del
bellissimo giardino della guest house. Credo sia il ristorante in cui mi sia trovato più a mio agio durante i miei viaggi. Saranno le immagini del Dalai Lama, sarà che sono tibetani e la tolleranza fa parte del loro temperamento, non so… tantopiù che loro non fanno nulla di speciale per mettermi a mio agio, tranne essere loro stessi. La gentilezza del loro animo l’ho letta nei loro gesti, quando stasera
cercavano di mandare via un cane che girava tra i tavoli,
accarezzandolo e indicandogli la strada; hanno un gatto che si
struscia sulle sedie e sulle gambe dei clienti per richiedere cibo e che se non viene accontentato si arrabbia, miagolando forte e guardandoti fisso negli occhi: deve aver capito che, a volte, l’arroganza paga!

Passo le serate a leggere e scrivere, bevendo Chai, il tè indiano,dolce e speziato. Sento le rane gracchiare all’unisono, dal bosco attorno al mio albergo, con un’intensità straordinaria: danno l’idea di
essere migliaia! Ogni tanto vedo passare qualche bufalo indiano: se ne stanno stesi ovunque, spesso in mezzo alla strada, masticando erba, oppure, quando non ne trovano, fogli di giornale. Se dovessi definirne il temperamento, direi che è un animale “che se ne frega”, nel senso indiano del termine.
Probabilmente, se una macchina dovesse investirlo, darebbe
“indianamente” la colpa al karma di una vita precedente e non al fatto di dormire steso in mezzo a una carreggiata. Ad ogni modo, mi conforta vedere il rispetto che certi indiani hanno verso gli animali, a tal punto da dare alle loro divinità le sembianze di alcuni di essi e l’umiltà di non sfruttare tutto ciò che non è umano a proprio uso e consumo. È invece deprimente venire a conoscenza della condizione di determinati gruppi di persone, o delle donne, in alcune zone del paese, ma d’altronde l’India è anche questo, il paese degli estremi: milioni di persone che muoiono di fame e, a pochi metri di distanza, alcuni che vivono nel lusso; indiani estremamente spirituali ed altri estremamente materialisti; persone
di dubbia moralità e persone profondamente buone, tutti vivono in simbiosi in questo immenso formicaio.
È stato duro lasciare la tranquillità del Goa per tornare
nell’opprimente traffico indiano di Karnataka, quando per tanti giorni gli unici ostacoli da schivare erano i bufali stesi lungo la strada. Ho passato un po’ di tempo con uno steward dell’Ecuador che vive a New York e lavora per una compagnia aerea americana.
L’ho conosciuto su un bus, grazie ad un vecchio indiano ubriaco che ha dato spettacolo, toccando una tedesca mentre le diceva “Bless you baby!”, scambiando una giapponese per un’americana e cadendo due volte. Questo equadoregno è uomo di notevole spessore, ha vissuto un anno a Firenze, ha viaggiato tantissimo e parla correttamente sei lingue, italiano compreso. Ci siamo confrontati parecchio e credo abbiamo imparato qualcosa l’uno dall’altro. Quello che ci divide è la visione di alcune situazioni: ad esempio per me un viaggio su di un bus scoperto è un esperienza meravigliosamente indiana e per lui maledettamente scomoda, in un vecchio palazzo indiano io ci vedo un fascino decadente e lui un muro da abbattere per fare spazio a qualcosa di nuovo, bello e pulito. Sono sempre stato attratto dalla confusione delle città vecchie e povere, sono talmente disordinate loro che mi sento meno in disordine io. Le città dove tutto è pulitissimo, c’è aria
condizionata ovunque e tutto è in perfetto orario mi levano il
respiro, mi viene l’ansia di dover essere puntuale anch’io. Troppo poetico io o troppo cinico lui? Forse ambedue le cose: lo stesso paese raccontato da due persone diverse sono due storie differenti.
Dopo un lunghissimo viaggio, sono finalmente arrivato nel Kerala, che significa “Terra dell’acqua e delle palme da cocco”. Sono millenni che la palma da cocco aiuta a sfamare gli abitanti delle backwaters (ovvero le vie d’acqua che penetrano nell’entroterra) che con questa pianta fanno di tutto, reti da pesca e materiale per barche compresi. Sono fermamente convinti che sia un albero sacro disceso dal cielo e che se dovesse cadere addosso a qualcuno, questa persona rimarrebbe illesa. Io preferisco non provare, ma gli credo sulla parola. Le backwaters sono le strade più
belle del Kerala e costeggiano piccoli villaggi dove il tempo sembra essersi fermato da un secolo: uomini che pescano sulle canoe, donne che lavano i panni nei fiumi e splendide case galleggianti con cui scivolare lentamente nei canali, lontani dai clacson del traffico.
Sono tanti giorni che parlo pochissimo con altre persone, se non per brevissimi dialoghi o saluti. Mi sono accorto di una cosa straordinaria: i pensieri si fanno più frequenti, più intensi e più chiari e la mia sensibilità verso il mondo esterno pare accentuata come se le energie risparmiate nel parlare, ascoltare ed interagire con gli altri venissero impiegate dalla mente per intensificare la sua
attività.
Sono vicinissimo a Kaniakumari o Cape Comorin, la punta estrema
dell’India, dove si può vedere il tramonto coincidere con il sorgere della luna, e, dove si incontrano e si abbracciano tre mari: quello del Golfo del Bengala, l’Oceano Indiano e il Mare Arabico. Da questa località parte anche il treno settimanale per Jammu Tawi, la tratta ferroviaria diretta più lunga dell’India con i suoi 3.734 chilometri. Da Kovalam si può osservare un tramonto stupendo dove il cielo, le
nuvole, tutta la spiaggia e gli scogli diventano rosa per pochi minuti.
Il sole può apparire come una palla di fuoco perfettamente tonda e lontana oppure creare un gioco di luci e di forme con le nuvole: non si sa mai quale tipo di scenario il Grande Capo srotolerà nel cielo per noi. Dalla cima del faro sopra la collina, si può guardare talmente lontano da vedere, sul mare, la curva tondeggiante del pianeta. Non ho ancora capito se le candele sui tavoli dei ristoranti servano a scopo decorativo o per le interruzioni di corrente che si verifano in media tre volte al giorno… forse ad entrambi gli scopi.

Nel Kerala ho notato che la maggior parte delle donne per strada non vogliono parlarmi nemmeno per darmi indicazioni, in quanto uomo e straniero. Così mi limito ad osservarle senza interagire. Di donne belle non ce ne sono tante, ma quelle che lo sono, sono belle in una maniera particolare: meravigliosi occhi, neri come petrolio e a volte verde acqua, sguardi sfuggenti, ma quell’attimo in cui ci si
incrocia, basta loro per scavarti dentro. Il fatto che la media sia bassa rende queste rare perle ancora più belle.
A volte la vera destinazione è il viaggio stesso. Per me il viaggio in India è via terra, soprattutto sui treni, dove si imparano e si capiscono più cose sugli indiani che su qualsiasi libro e dove la meta viene guadagnata assieme al mutare del paesaggio e alla vista della ressa dei venditori che si accalcano sotto i finestrini ad ogni stazione. Sul treno ci si trova il lavoratore, i più svariati
venditori, i più svariati religiosi dell’India, l’ubriaco, quella che parla da sola, quello che chiede l’elemosina, quello che sale con la gallina, quelli che salgono sul tetto e tutta una serie di personaggi intermedi, stranieri compresi.
È bello godersi questo viaggio e la vista dell’assortimento umano che ne consegue, con compagna solo la mia valigia che è stata la mia casa su rotelle per buona parte degli ultimi due anni. Solo chi ha il cuore calmo è adatto a vivere a lungo nello stesso posto.

Per la mia ultima cena indiana ho deciso per Madras, sono andato appositamente in un ristorante per mangiare solo legumi e verdure,specialità culinaria che ora posso annoverare, con un pizzico di orgoglio, al mio carnet di cibi strani, mangiati in giro per il mondo.

Appena seduto al tavolo, mi sono sentito gentilmente chiedere di andare a lavare le mani, prima di venir servito. Stavo gentilmente per rispondere, che invece di pensare alle mie mani, pensassero a lavare le centinaia di migliaia di strade del loro paese, sporche di escrementi, liquidi
di scarichi fognari e chissà cos’altro, ma alla fine ho lasciato perdere, pensando che anche queste situazioni, collimano col modo di dire “Incredible India!”. Prima di lasciare il mio albergo, ho dato una mancia all’anziano
signore che prepara le colazioni e che lavora dietro le quinte senza mai prendere nessun merito. Da come gli si è illuminato il viso, quando mi ha sorriso con tutta la bellezza del suo unico dente, ho capito che in tanti anni di servizio, nessuno aveva mai riconosciuto il valore del suo lavoro.

Mi vengono gli occhi lucidi a ripensarci ora, sul risciò che mi sta portando all’aeroporto. A Madras, finisce qui il mio viaggio nel paese dei mille sapori, mille
colori, mille contrasti e contraddizioni. Un paese che ha speso un patrimonio per costruire la bomba atomica e ha dichiarato di possederla come un vanto, quando milioni di persone muoiono di fame nelle sue strade. Il paese che poteva essere l’ultimo baluardo contro l’avanzare della modernità all’ occidentale. Un paese che alcuni giorni mi ha esaltato, in altri mi ha massacrato e in altri ancora mi ha dato la pace. Un paese dove ci si rende conto di
essere formiche e dove mi sono chiesto come faccia Dio ad ascoltare le preghiere di tutti.
L’India è un posto che ti costringe a fare ragionamenti che non hai mai fatto, un posto che anche se non dà le risposte, aiuta a porsi le giuste domande e a vedere le cose sotto una luce nuova. Un posto che ho amato e odiato in egual misura, con forza, passione e tutti i miei sensi. Un posto che non dimenticherò mai.
In un certo senso e non nel modo in cui mi aspettavo, l’India mi ha dato quello che cercavo: un contributo al mio viaggio interiore, forse il viaggio più importante, e uno stato d’animo che non si esaurisce nell’arco di un minuto, o nell’attimo di una risata, ma che persiste in me per giorni e a volte per settimane. Lo stato d’animo in cui sono gentile con gli altri, in cui provo piacere per le cose
semplici, per la natura, per l’arte di perdere tempo sui
miei libri o nei miei pensieri senza nessuno che mi aspetta, senza orari e senza scadenze. Lo stato d’animo in cui mi dico: “È così che dovrei essere”, ed è così che vorrei essere. Sempre.