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di Giuseppe De Pietro

Questo di Franco Petti è è un viaggio prezioso di contenuti. Apparentemente si tratta di un articolo sulle relazioni tra la cultura del popolo Dogon (una popolazione dello stato africano del Mali), gli antropologi ed i turisti, ma la riflessioni su questi argomenti potrebbe a buon diritto estendersi più in generale al percorso delle discipline antropologiche ed etnologiche dalla fine dell’Ottocento alla fine del Novecento. le foto, molto umilmente apprezzabili non si pone obiettivi di riflessione così generali, ma certo è che la vicenda dei Dogon è indubbiamente significativa e forse emblematica.

I Dogon sono stati fatti conoscere in Europa dall’antropologo francese Marcel Griaule, che visse tra loro tra gli anni trenta e gli anni quaranta. Su di loro scrisse decine di articoli, saggi ed alcuni libri, tra i quali il più celebre è Dio d’acqua. In quel libro, Griaule descrive i Dogon come una popolazione di pastori-guerrieri-filosofi, che hanno costruito una complessa cosmologia, simbolismi e rituali che sono presenti in ogni gesto della vita quotidiana di ogni membro di questa popolazione.

I francesi si sono appassionati a questo personaggio, ed a partire dagli anni tra le due guerre tra i ceti intellettuali è cominciato ad andare di moda un viaggio tra i Dogon: non uno dei soliti safari africani in cui si va per osservare gli animali e la natura, ma un viaggio colto, alla scoperta di una popolazione ritenuta raffinata e dotata di una profonda cultura.

Marco Aime smaschera il “mito dei Dogon”, costruito da Griaule. Innanzitutto una popolazione Dogon non è mai esistita: sono esistiti diversi gruppi, che parlano dialetti diversi, abitanti nella stessa falaise, e solo Griaule li ha definiti come una medesima popolazione. Griaule ha descritto i Dogon come una popolazione che pratica antichi rituali simbolici, sempre uguali da tempi immemorabili. In realtà, i Dogon non sono mai stati isolati dalle altre popolazioni che abitano nella regione, ed hanno intrattenuto con esse scambi commerciali e culturali, che hanno provocato modificazioni nella cultura, nei rituali, nelle credenze e nelle simbologie.

Ai tour operator ha fatto indubbiamente comodo la rappresentazione dei Dogon fatta da Griaule, perché indubbiamente soddisfa la sete di esotismo di una parte dei turisti, il cosiddetto “turismo colto”. Anche ai Dogon ha fatto e fa comodo la rappresentazione che di essi ha fatto l’antropologo francese: “I Dogon, da parte loro, sembrano avere capito che il turista cerca in loro solo questo aspetto e, naturalmente, lo mettono il più possibile in evidenza. Il turista, da parte sua, è soddisfatto di trovare esattamente ciò che gli è stato promesso dal tour operator”.

“L’occhio dello straniero vede solo ciò che già conosce”, dice un proverbio africano, che sembra proprio adattarsi alla vicenda dei Dogon e di come sono stati visti da turisti e antropologi. Aime cita numerosissimi esempi di come sia Griaule e gli antropologi suoi seguaci che le guide turistiche ed i tour operator, abbiano costruito l’identità Dogon come identità immutabile, fissata per sempre. Alcuni esempi della costruzione dell’identità Dogon sono piuttosto divertenti: Aime cita per esempio un libro degli antropologi Nadine Wanono e Michel Renaudeau, ricco di illustrazioni. Alcune di queste ritraggono donne Dogon intente ad essiccare cipolle; “il gesto è immutabile”, dice la didascalia, “evocando un’atmosfera di eternità che avvolgerebbe questo popolo. L’immagine è stata purificata, resa “autentica”, tribale, allontanata nel tempo e fissata per sempre in una dimensione astorica. Eppure, prima dell’arrivo dei francesi, qui le cipolle non c’erano. Furono proprio i coloni a svilupparne la coltivazione”. Questo e molti altri esempi sono citati da Aime per mostrare come i Dogon abbiano nel corso dei secoli intrattenuto rapporti con altre popolazioni, come i loro costumi e tradizioni, lungi dall’essere immutabili, si siano modificati. Anche le stesse maschere e statue rituali si sono modificate nel corso del tempo. Aime racconta che “lo stesso Marcel Griaule rileva che nel 1935, alle settantotto maschere tradizionali, se ne aggiunse una sotto i suoi occhi. In occasione di una danza rituale fece la sua comparsa un personaggio dalle movenze ondulanti, con in mano un taccuino e una penna, che fingeva di porre domande al pubblico e di trascriverne le risposte, seguito da un interprete: era la maschera dell’etnografo”.

Griaule non aveva mai pensato che la sua presenza potesse influenzare un evento, questo era dovuto “alla sua visione della cultura concepita come una performance, uno spettacolo”, e così pure altri antropologi suoi collaboratori condividevano la sua stessa visione. Insomma, sia per l’antropologo che per il turista, quello che vi desidera vedere diventa quello che si vuole vedere. Come ha notato l’antropologa inglese Mary Douglas, se a studiare i Dogon fossero stati antropologi inglesi, “forse avremmo avuto testi pieni di diagrammi di parentela, linee di discendenza e via dicendo, come nella migliore tradizione del funzionalismo britannico dell’epoca. Curiosamente, quei Dogon, così attenti alla tradizione e all’estetica, assomigliano molto ai francesi”.