di Clara Racanelli

Nell’America degli anni ’90 una ragazza rimasta sola con il proprio fratello dopo la morte improvvisa della madre e la fine del proprio matrimonio, chiusa nella dipendenza dall’eroina decide di affrontare il Pacific Crest Trail a piedi, più di 1.600 Km in totale solitudine macinati in più di due mesi. In questo periodo ripensa a quello che le è successo e che è determinata a superare con un’impresa che pare superiore alle sue forze.
Fuori dagli schemi Reese Whiterspoon ex biondina di indolori commedie, si produce un film faticoso ma sulle misure psicologiche mutate confidando su un comuni divisore tra gli interni di coscienza e i panorami. Bravissima la mamma Laura Dern, una sorpresa.
Un’aspra bellezza ed emotivamente risonante saga di perseveranza e di scoperta di sé che rappresenta una bella aggiunta al recente ricco raccolto di storie di sopravvivenza.
Un film che permette raffiche di umorismo per sfondare le tenebre, Witherspoon taglia al centro i lividi del cuore di Cheryl, per sferragliare tra disperazione e determinazione.
Chi immagina un film imparentato con Into the Wild non sta prendendo un abbaglio; anche se qui il personaggio centrale è di sesso femminile: come del resto accadeva nel recente Tracks Attraverso il deserto. Il tema, infatti, è quello del confronto tra essere umano e natura, inteso come ricerca identitaria e occasione di crescita. Tratto dal libro autobiografico di Cheryl Strayed e co-sceneggiato da Nick Hornby, Wild racconta il lungo viaggio solitario di Cheryl, giovane donna che ha fatto collezione di esperienze traumatiche (perdita della madre con la quale viveva un rapporto simbiotico, divorzio travagliato, eroina, sesso occasionale come strumento di autodegradazione…) e decide di partire per una delle più difficili traversate americane: la PCT (Pacific Crest Trail), che si svolge per oltre 4000 km. sulla costa Ovest degli Stati Uniti. Il trekking, durissimo, la porterà a percorrere 1700 km. nelle terre selvagge, dal Mojave alla California all’Oregon, affrontando le proprie paure e prendendo coscienza dei propri limiti. Si tratta soprattutto di un itinerario esistenziale che Cheryl, malgrado la ricorrente tentazione di rinunciare, considera un’occasione di catarsi e di resilienza da cui dare inizio a una nuova vita. Lo spettatore la segue lungo strade e sentieri solitari, punteggiati da incontri rari e non sempre piacevoli, ma sempre in compagnia dei suoi ricordi dolorosi. Jean-Marc Vallée è salito agli onori della cronaca, l’anno scorso, per il pluripremiato Dallas Buyers Club, che ha fatto vincere l’Oscar a Matthew McConaughey e Jared Leto. A confronto con uno dei miti fondativi della cultura americana, l’incontro-scontro tra individuo e wilderness — il regista canadese adotta uno stile appropriato, alternando inquadrature su larga scala, dove la protagonista appare in campo lungo sullo sfondo di deserti e montagne, con piani ravvicinati del suo volto, come è abitudine del film psicologico. Pur trattandosi di cinema, a momenti si ha la percezione che una scena sia stata girata in condizioni assai vicine a esperienze autentiche. Ed è questa la parte migliore del film. Però, Vallée non sceglie la sobrietà, né lascia che le immagini «parlino» da sole. Forse preoccupato di annoiare, oltre a farcire la narrazione di aneddoti ed episodi (che ci stanno anche) ricorre alla voce narrante della protagonista e a una quantità di flashback sulle disavventure della sua vita che ti lasciano un senso di sazietà, se non d’indigestione. La distanza tra le immagini solenni della natura e gli effetti di stile (flashback allucinatori con montaggio isterico) è forte e distanzia il film da Sean Penn ( Into the Wild) avvicinandolo al Danny Boyle di 1-27 ore. Il regista, insomma, si prende molto sul serio, ma perde di vista una regola fondamentale del cinema: che non sempre voler spiegare, mostrare e dimostrare tutto è la cosa migliore. Molto buona la stoica interpretazione di Reese Whiterspoon, candidata ai recenti Oscar (ma non premiata) come miglior attrice protagonista. Però è ancora più commovente Laura Dern nella parte della madre defunta Bobbi, donna vessata da compagni ubriaconi e maneschi ma innamorata dei figli che l’attrice interpreta con una sorta di gioiosa disperazione. Stoica anche la Dern, del resto, se si pensa che all’anagrafe conta nove anni scarsi più della sua figlia cinematografica.
Nell’America degli anni ’90 una ragazza rimasta sola con il proprio fratello dopo la morte improvvisa della madre e la fine del proprio matrimonio, chiusa nella dipendenza dall’eroina decide di affrontare il Pacific Crest Trail a piedi, più di 1.600 Km in totale solitudine macinati in più di due mesi. In questo periodo ripensa a quello che le è successo e che è determinata a superare con un’impresa che pare superiore alle sue forze.

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