di Pino De Pietro

La canzone “Sapore di sale” di Gino Paoli l’ho ascoltata e comperato il 45 giri nel lontano 1963 a Buenos Aires, e l’anno dopo acquistai anche il long play “Basta chiudere gli occhi”. Fu allora che ho sentito, ho vissuto, ho amato le sue canzoni. Con la mia ragazza Maria de los Angeles condividevamo i stessi desideri di ogni sua canzone. Fu allora, che le ho scritto una lunga lettera a Gino Paoli pregandolo do organizzare un concerto a Buenos Aires, all’epoca l’aveva fatto Ornella Vanoni al Teatro Colosseo di Buenos Aires. Gino Paoli mi ha risposto, in una ettera in un foglio di mezza pagina, come si usava allora, ne fui emozionato, poi l’ho data alla mia ragazza per ricordo.”

Oggi entriamo nella sua casa; è un sogno a occhi aperti. Ha superato da poco i suoi 80 anni, siamo andati a Campiglia Marittima, in provincia di Livorno, sulle colline a pochi passi dal mare, dove il cantautore genovese è solito lasciare chiusi gli spartiti in un cassetto, per dedicarsi ai campi. Abbiamo parlato passeggiando tra gli ulivi nella tenuta che sorge sui terreni di suo nonno. Ci ha mostrato i luoghi dove vive. Un cantautore, un poeta, ma anche un «contadino» che è tornato alla terra con una passione incredibile.

Come passa il tempo qui, quando non ha impegni musicali?
«Mi occupo della casa e della mia grande famiglia. Scrivo quando ne ho voglia. E tra non molto sarà il tempo della raccolta delle olive».

Come mai questo amore per la natura?
«L’ unica fede che ho, la sola vera maestra che ascolto è la natura, nella sua campagna, la dove il cantautore genovese è solito lasciare chiusi gli spartiti in un cassetto, per dedicarsi ai campi che già lavorarono, in altre vite, il padre, il nonno e il bisnonno.

Quindi è un uomo di fede?
«L’ unica fede che ho, la sola vera maestra che ascolto è la natura.”

Produce qui l’olio?
«Sì, abbiamo un frantoio. Goccia dopo goccia, la vita a contatto con la natura scorre più lentamente, seguendo il ritmo delle stagioni. Se mi trovo in difficoltà, io mi guardo intorno, mi rivolgo alla terra, e trovo tutte le risposte di cui ho bisogno. Occuparsi dell’ uliveto e dell’ olio di famiglia, che ci richiede sempre più impegno, si impara molto anche della vita: l’ olivo per esempio non muore, o comunque non muore mai del tutto, perché la radice sopravvive sempre».

Ci vuole tanta esperienza per produrrer un ottimo olio?
«Coltivandoli, poi, capisci tante cose, ti danno la coscienza delle stagioni, e il valore dell’ esperienza su cui si basa la saggezza. Ognuno ha le sue teorie, sia sulla potatura che sulla raccolta o sulla lavorazione, ma l’ esperienza in questo campo è sempre più importante, e io faccio come hanno fatto i nostri vecchi, così non sbaglio. Il frantoio che utilizziamo è a freddo, come nella tradizione di famiglia». Il pollice verde di Gino Paoli, per altro, andrebbe tutelato al pari della sua magnifica voce: «Di fronte a una pianta o a un fiore che sta per morire, non mi arrendo tanto facilmente.

Dove ci porti?
«Vi accompagno in un posto straordinario: una profonda depressione del terreno, circondata dalle rocce e dalla vegetazione. «È un luogo magico, ci vengo la sera quando il sole tramonta e mi piace restare ad ascoltare» dice. «Un giorno mi piacerebbe organizzare un concerto qui, con le persone sedute a terra dove capita».

Come sono andati i festeggiamenti per i suoi 80 anni?
«Bene, ma io ho solo fatto una cosa: compiere gli anni. Mia moglie ha invitato un centinaio di persone. Non sapevo nulla, è stata una sorpresa. Non amo festeggiare il compleanno, lei lo sa, ma vedere così tanti amici mi ha fatto felice».

Le è mancato qualcuno?
«Bruno Lauzi. Io sono l’unica persona con cui non ha mai litigato».

La sua vita sembra guidata dal valore dell’amicizia.
«Ho riposto molta fiducia nelle persone e ho avuto fortuna. Gli amici hanno sempre potuto contare su di me. Oggi è raro, nessuno si fida più di nessuno».

Molti dicono che con il passare degli anni lei sia diventato sempre più bello. Lei come si sente?
«Mi sento un ventenne con il corpo di un signore di una certa età. Sono come il fanciullino di Pascoli, mi stupisco e mi emoziono ancora come i bambini».

È vero che lei non ha mai inseguito il suo successo?
«Mai. Non volevo fare nemmeno questo mestiere, mi hanno dovuto convincere».

Però quando è arrivato il successo, tutto è andato un po’ fuori controllo.
«Immagini un mondo in cui tutti all’improvviso ti danno sempre ragione e ti danno qualsiasi cosa tu chieda. Chi non avrebbe perso la testa?».

Come tornò con i piedi per terra?
«Con gli amici e la famiglia. Ai tempi, con i manager di allora, andare a lavorare all’estero era la regola. Dopo un anno di viaggi in Brasile, Portogallo e America, al ritorno il mio primo figlio Giovanni riconosceva suo padre in una vecchia foto e non in me».

«Non si può controllare come arriva una canzone alle persone. È come a scuola quando ti spiegano il significato di una poesia: è sbagliato. Ognuno deve trovare il suo. “Sassi” è il brano che traduce meglio le mie emozioni nella scrittura, ma non è il mio preferito».

Quindi qual è il suo preferito?
«Non l’ho ancora deciso».

Qual è il suo rapporto con la tv?
«Mi piacciono i telefilm un po’ truci e dove c’è un puzzle da risolvere come “CSI” ed “Elementary”. L’attesa della verità e la risoluzione di un enigma è l’emozione più forte per uno scrittore, io lo faccio tutti i giorni con la mia vita».

Andava bene a scuola?
«Più che altro non ci andavo. Ma per le materie umanistiche ho sempre avuto un’enorme passione. In matematica, invece, ero un disastro».

Adesso che è presidente della Siae (Società italiana degli autori ed editori) cosa si aspetta dal futuro della musica?
«Mi aspetto che la musica torni a essere rispettata dagli artisti e dal pubblico. È la canzone che deve essere protagonista, non il successo che ottiene. Per il mio nuovo ruolo spero di riuscire a vincere la battaglia più difficile: che tutti smettano di demonizzare la Siae».

Lei si sente un sopravvissuto della scuola genovese?
«Me lo dicono in molti, Bruno Lauzi me lo diceva più di tutti. Forse è vero».

È incredibile che così tanti grandi nomi dello spettacolo fossero tutti amici e venissero dagli stessi luoghi.
«Abbiamo riempito il vuoto di espressione di chi ha vissuto la guerra. Le persone avevano fame di canzoni vere, che non fossero di sola evasione. Forse lo avrebbe fatto qualcun altro al posto nostro, se non ci fossimo stati noi».

Mi racconti della sua famiglia? ”
La mia famiglia da generazioni si occupano di questo podere in Toscana, dove abitano duemila ulivi, alcuni ultracentenari, ricavandone gioie e benefici fuori dal comune: «La malattia dell’ olio e degli ulivi è qualcosa di estremamente contagioso, e una volta che la prendi non ne guarisci più. Ce l’ aveva già mio bisnonno, forse anche il trisnonno, e io l’ ho trasmessa ai miei figli, a Nicolò soprattutto, a mia moglie Paola, e agli amici più cari.

Che tipo di genitore era, e che genitore è adesso?
«Le donne sanno essere madri da quando sono nate. Noi uomini diventiamo padri solo a 40 anni. Per questo le donne sono così avanti. Noi uomini abbiamo bisogno di più tempo per capire chi siamo. Oggi per me essere padre è un fatto più naturale».

Ha tante delusioni?
«Solo la terra non tradisce, la natura è la madre di tutte le nostre certezze. Mio nonno diceva anche che la terra è bassa, che dobbiamo farci umili per essere alla sua altezza». «L’ agricoltura – sottolinea Paoli – è l’ anello di congiunzione tra le generazioni e le memorie familiari, e può diventare un’ ancora di salvezza quando le cose nella vita si mettono male».
Le sue canzoni sono diventate famose, ma spesso sono state fraintese.

Per questo compleanno ha fatto bilanci? È un uomo felice?
«Ho incontrato donne meravigliose e ho avuto amici straordinari. La vita è la virtù dell’incontro e io credo che solo questo possa renderci felici».

Come mai allora l’hanno sempre definita come una persona malinconica?
«Perché l’intensità è vista come tristezza. E la stupidità come allegria».