di Giuseppe De Pietro

Un gigante del ‘900 ma anche un padre alla rovescia. Così lo definì il poeta, scrittore e amico abruzzese Renzo Paris, descrive l’amico Alberto Moravia, scomparso da oltre un ventennio. “Quello che mi manca ancora oggi di lui – dice – sono le nostre conversazioni culturali. Non mi diceva le cose con un atteggiamento paternalistico, perché lui non voleva diventare padre. Per lui i figli erano i suoi libri, quello che diceva per me aveva come una ‘funzione pedagogica’”.
   
Paris mette in luce la vita e l’esperienza professionale di Alberto Moravia, scrittore considerato tra i più importanti del Novecento, eppure negli ultimi tempi ingiustamente “messo da parte”.
Il suo intervento al Wegil in occasione di una mostra fotografica dove ci sono alcune delle foto dell’epoca di Moravia e i suoi amici di sempre, interlocutori d’eccezione come i registi Citto Maselli, Mario Monicelli e Carlo Lizzani; i giornalisti e saggisti Nello Ajello e Walter Pedullà, lo scrittore Renzo Paris, il poeta Vito Riviello. E’ una sorta di mosaico formato dalle interviste di coloro che conobbero Moravia e che condivisero determinati aspetti della sua vita e della sua professione, cercando di vedere il mondo “con gli occhi di bue, i quali, come si sa, ingrandiscono tutto”.
Alberto Moravia per molti era uno scrittore scomodo; uno scrittore ‘contro’, che considerava la letteratura italiana “provinciale e piccolo borghese”, incapace di poter “prescindere dalla politica”. Un autore che veniva considerato per certi versi un pornografo, sebbene un suo romanzo, Agostino, in America fosse studiato e proposto come strumento di lavoro dagli psicanalisti.
Stralci di vita quotidiana e di amicizia nelle parole di Sandro Penna: “Stupendo, insopportabile…Andava sempre a stringere…Intelligentissimo, coglieva sempre il cuore delle cose, ed era continuamente in movimento. Aveva la gamba matta, lo chiamavano, per questo, ‘L’amaro Gambarotta’.” Ricordi di quando erano vicini di casa, in via Archimede, ai tempi della storia d’amore di Moravia con Elsa Morante e di Maselli con l’attrice e scrittrice Goliarda Sapienza. Il regista racconta la misteriosa e straordinaria capacità di Alberto Moravia di evocare le immagini e le luci attraverso la scrittura; nonostante ciò, numerosi aspetti della sua arte rendono problematica la trasposizione cinematografica dei suoi romanzi.
Renzo Paris, autore anche di biografie e di un libro fotografico su Moravia, racconta il rapporto problematico dello scrittore con le donne della sua vita, la sua solitudine, la completa e disinteressata voglia di capire. Precoci le frequentazioni letterarie e costante l’influenza di Dostoevskij sul giovanissimo “profeta indifferente”, che a quell’autore fu legato per tutta la vita. Conosciutissimo all’estero, soprattutto in terra americana, raccontava egli stesso di aver trovato una copia del suo romanzo La Romana presso una tribù di indiani d’America.
Alla stregua dei grandi romanzieri di sempre, è ancora Paris a raccontarlo, Moravia pensava che le opere gli fossero dettate da una voce, una voce antica. Discorso che oggi si è perso, soppiantato da televisione, cinema e immagini virtuali.“Quando è morto Alberto uscì questo libro Vita di Moravia: aveva 83 anni. Era una giornata di sole e lui era stato vestito dagli impiegati delle pompe funebri una giacca sportiva blu, una camicia rossa a righe bianche, una cravatta di maglia di seta rosa, i pantaloni scuri e mocassini inglesi. Così era Alberto negli ultimi anni della sua vita, un uomo anziano, molto curato.” Scrive così Alain Elkann nel suo libro intervista con Alberto Moravia. Da quel giorno che Alberto Moravia fu trovato senza vita nella sua casa romana sono passati quasi venticinque anni se non di più. Era il 26 settembre del 1990. Anche se all’inizio qualcuno aveva pensato al suicidio. Ma non fu così perché Moravia amava la vita. “La vita è un perfetto caos dal quale si  può estrarre solo qualche frammento misterioso, di ordine”, diceva. E amava in modo viscerale Sabaudia, come l’Africa. “E’ un mondo in cui ancora la natura prevale”. Quelle dune specialmente. Così irregolari. Quella strada dritta e lunga che divide il lago dal mare. E qui trovò un suo paesaggio interiore.  La domenica d’inverno capitava che Alberto assieme a Dacia Maraini e Pier Paolo Pasolini,  prendesse la sua Lancia Delta e partire a tutta velocità da Roma direzione Sabaudia. Erano i primi anni Settanta e la città razionalista ancora non era ancora molto conosciuta. “Se non fosse per villa Volpi laggiù, questa sarebbe ancora l’Italia di Stendhal! E Sabaudia, una città del silenzio stile Novecento”, disse una volta a Enzo Siciliano. “Sembra una casa giapponese”, diceva, lineare, cemento e legno attorno alla duna.
Tutte le mattine lavorava alla sua Olivetti  o a penna fino a mezzogiorno, poi scendeva in spiaggia per una lunga passeggiata con l’acqua fino alla vita  e ogni tanto si fermava per tirare su dalla sabbia qualche tellina, aprirla con le mani per succhiarla. Di pomeriggio si fermava al bar Italia sotto i portici di fronte al comune per un gelato o una tazza di tè  con i suoi amici Dario Bellezza e Laura Betti.
Di estrazione borghese che per il suo anticonformismo aveva sempre criticato aspramente la borghesia. Allo stesso  modo brusco e delicato nel carattere. “Il marxismo è una visione fondamentale- ribadiva Moravia-  è una visione fondamentale della vita che deve essere integrata da altre cose: dalla psicanalisi, dalla sociologia non marxista e da certe filosofie.”
Con Pasolini, oltre a condividere la villa sulle dune, condivideva la passione dei viaggi. Avevano viaggiato insieme in Africa, in Marocco, in India.  Nel 1961 i due grandi scrittori partirono per l’India. E da questo viaggio nacque: “Un’idea dell’India” di Moravia (razionale, argomentativo, mentale) e “L’odore dell’India” di Pasolini (sensoriale, personale, sentimentale). Un viaggio tra la miseria. “Non c’è nessun odore, se non quello, delicato, del fuoco- concludeva così Pasolini il suo reportage- Siccome l’aria è fredda, Moravia e io ci avviciniamo istintivamente ai roghi, e, avvicinandoci, ci rendiamo presto conto di provare la piacevole sensazione di chi sta intorno a un fuoco, d’inverno, con le membra intirizzite e goda di star lì, insieme a un gruppo di casuali amici, sui cui volti, sui cui stracci, la fiamma colora placidamente il suo laborioso agonizzare. Così, confortati dal tepore, sogguardiamo più da vicino quei poveri morti che bruciano senza dar fastidio a nessuno. Mai, in nessun posto, in nessun’ora, in nessun atto, di tutto il nostro soggiorno indiano, abbiamo provato un così profondo senso di comunione, di tranquillità e, quasi, di gioia.”
Amicizia come fratellanza. E l’amicizia tra Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini è qualcosa che va oltre. “Per essere amico di qualcuno ho bisogno di due requisiti: la stima culturale e il fascino personale. Pasolini aveva tutti e due. In più c’era in lui in qualche modo un carattere complementare al mio. Non andavamo d’accordo su molte cose, forse per questo alla fine andavamo d’accordo. E poi c’era un vero, profondo affetto tra fratelli. Ho vissuto la sua morte come una catastrofe personale”. Quel dolore urlato da Moravia durante il funerale dell’amico assassinato e quelle parole improvvisate a Campo de’ Fiori sono rimaste scolpite nella memoria di tanti. “Abbiamo perso prima di tutto un poeta, e di poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre quattro in un secolo, quando sarà finito questo secolo Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta.”
Alberto Moravia è il più grande “romanziere realista” e protagonista assoluto della cultura italiana del Novecento. Lo scrittore che con l’incipit del suo romanzo d’esordio “Gli indifferenti”: “Entrò Carla”, nel 1929 cambiò la letteratura italiana.
“I miei romanzi- diceva- sono tappe di una mia autobiografia intellettuale e l’ideologia che li sorregge è quella della rivolta. Il romanzo non ha altro scopo che quello di descrivere la società, e la società esiste da sempre perché l’uomo è un animale sociale. Il romanzo non è finito, semmai i romanzieri sono in ritardo, perché non hanno capito che gli schemi della narrativa ottocentesca non si possono applicare al mondo moderno.”
Con i suoi romanzi Moravia forniva l’esempio di una prosa precisa, lucida e realistica. Come ne “La ciociara”. Dopo la precipitosa fuga verso Napoli, durante la seconda guerra mondiale, intorno al 12 settembre del 1943, Alberto Moravia ed Elsa Morante che aveva sposato nel 1941, trovarono rifugio nella casa di un contadino a Sant’Agata, presso Fondi, vicino alla linea del fronte, e su quelle montagne trascorsero nove mesi, prima di poter far ritorno a Roma. Un lungo periodo di disperazione ma anche di speranza che hanno lasciato in Alberto un ricordo drammatico, maturato in quel romanzo iniziato nel 1945, ma rimasto a lungo incompiuto, prima di essere ripreso e pubblicato nel 1957.
Indubbiamente “La ciociara” rimane una specie di documentario delle esperienze che l’autore ha fatto nel suo rifugio fondano, ed è uno dei romanzi più autentici e veristici scritti su quest’ultima guerra. Una vera e propria lezione morale.
“Con ‘La ciociara’ si chiude idealmente la mia fase di apertura e di fede nei confronti del comunismo- disse una volta Moravia- Si consumava dentro di me l’identificazione tra comunista e intellettuale. In altri termini il personaggio di Michele, il Michele de ‘Gli indifferenti’ si conclude là, ne ‘La ciociara’. Non a caso, il protagonista maschile del romanzo l’ho chiamato appunto Michele.”
Alberto Moravia le sapeva raccontare le storie. E chi lo accusava di non fare altro che riscrivere “Gli indifferenti” per tutta la vita, egli obiettava: “Si può dire che io sono uno scrittore monotono, ripeto infatti gli stessi temi come certi uccelli ripetono lo stesso verso, ma di anno in anno va mutando il mio modo di vedere questi temi.”
Nella sua “Breve autobiografia letteraria” (Moravia si è sempre rifiutato di scrivere una vera e propria biografia) curata da Geno Pampaloni, Alberto Moravia affermava: “A partire da ‘Gli indifferenti’ non ho mai avuto un vero passato e così sono andato avanti tutta la vita, a vivere e scrivere parallelamente piuttosto proiettato verso l’avvenire che chinato sul passato, senza mai troppo sapere perché vivevo e scrivevo. Infatti quando mi domandano perché scrivo, rispondo di solito: scrivo per sapere perché scrivo, come vivo per sapere perché vivo.”
“Penso che tutta la vita sia al presente, come il cinema. Al cinema vedi Cesare che passa il Rubicone ma in realtà lo vedi al presente.” Così rispondeva Moravia a una delle tante domande di Dacia Maraini pubblicate nel libro “Il bambino Alberto”, nonostante la ritrosia dello stesso Moravia a parlare del suo passato, proprio per mantenersi mentalmente giovane e sentirsi sempre più libero. “I medici mi dicono che ho un fisico cinquantenne anche se per l’anagrafe ne ho settanta”, amava ripetere. Un “moralista” che guardava al futuro e non all’infelicità del suo passato,  della sua malattia.
Moravia e gli amici. “Gli amici più cari degli anni Trenta- scrive Renzo Paris nel suo “Moravia. Una vita controvoglia”- erano: Mario Pannunzio, Vitaliano Brancati e Curzio Malaparte.” Anche se più tardi  lo stesso Moravia considererà “amici di sempre”: Goffredo Parise, Pier Paolo Pasolini, Enzo Siciliano. E proprio ai suoi amici aveva ripetuto spesso che non era innamorato di Elsa Morante: era lei che lo amava. “Così, in un’atmosfera di passionalità aggressiva in lei e di affetto difensivo in me, siamo vissuti venticinque anni. Elsa cercava di annullarmi e al tempo stesso, per troppa passione, annullava se stessa.”
Moravia e la donna. La donna è sempre stato per lui il punto d’osservazione per eccellenza. “Non nego che ho un interesse particolare per le donne. Dopotutto è più della metà dell’umanità. Le donne hanno avuto una grande importanza nella mia vita: mi hanno educato- ripeteva sempre a qualche amico- Odio il passato, odio ciò che non è presente o futuro e penso che la vecchiaia sia una sconfitta fisica. Ma io vivo più o meno come  vivevo quando avevo vent’anni. Sono stato sposato con Elsa Morante, ho vissuto venti anni con Dacia Maraini. Mi sono appena sposato a settantotto anni.”
I personaggi moraviani. “Quasi tutti i personaggi moraviani –tiene a precisare Giancarlo Pandini in un saggio su Moravia- sono consapevoli che la fine di un modo vecchio di vita e la metamorfosi salutare per attingere uno stato esistenziale diverso, coincidono con una violenza: Carla, Agostino, Luca, Michele, Giacomo, Cesira e Rosetta l’accettano come un tributo da pagare all’autenticità della vita. Il processo naturale di questa crisi è nell’impossibilità di definire l’identità dell’io alienato alla perdita della propria coscienza. Il tema dell’alienazione, nelle sue varie schematizzazioni di indifferenza, disubbidienza, conformismo, disprezzo, attenzione diverrà nel personaggio di Dino più scopertamente noia.”
“A volte penso- risponde Moravia sollecitato da Siciliano- che la noia è un sentimento, una forma di emozione raffreddante che appartiene costitutivamente a chi abbia una vocazione a narrare, come credo di averla io. Altre volte però, in alcuni periodi della mia vita, quel sentimento prende aspetti così prevaricanti e distruttivi che mi sono sentito spinto ad analizzarlo. E l’ho fatto nell’unico modo in cui credo si possano esaminare le emozioni e i sentimenti segreti e inconsci di un uomo: l’espressione.”
Ho avuto la fortuna di conoscere o meglio d’incontrare Alberto Moravia a Fondi. Era l’estate del 1988. Alberto Moravia era stato invitato a commemorare in un premio di poesia il poeta Libero De Libero. Ricordo con grande emozione quel momento. Un po’ forse perché quel viso severo e accigliato ricordava mio nonno paterno, ancor più la sua stretta di mano, le sue parole augurali e l’autografo su un suo libro di racconti che avevo portato con me. È bastato quel breve incontro per capire la sua grandezza di scrittore. Questo era Alberto Moravia, lui che sembrava freddo e razionale, era invece, l’eterno ragazzo capace di stare ore e ore da solo davanti alla finestra o sulla spiaggia a contemplare il mare e le dune di Sabaudia. “Ho avuto una vita da artista, in qualche modo non da adulto- amava dire con civetteria- Ecco perché sono rimasto sempre, quasi mio malgrado, un po’ adolescente.”