di Giuseppe De Pietro

Mark Ruffalo, l’attore dal cuore tenero, ma in grado di affrontare con grande maestria anche i ruoli più aggressivi e controversi.
Fiero delle sue origini calabresi – nonno Frank era di Girifalco, in provincia di Catanzaro – Mark ammette senza imbarazzo che per il ruolo di Hulk, nel nuovo Thor: Ragnarok (terzo capitolo dedicato al dio del Tuono) si è ispirato ai propri genitori. «Mio padre Frank Jr. è il tipico italiano testa calda, impulsivo, passionale. Caratterialmente assomiglia molto a Hulk» dice ridendo quando lo incontriamo a Los Angeles in occasione dell’uscita americana del film (nelle sale italiane dal 25 ottobre). Bruce Banner, ovvero Hulk prima della trasformazione, invece «è proprio come mia madre, una persona gentile e riflessiva».

Con Mark Ruffalo le parole scorrono facili. Il dialogo è vero, non gli piace essere il divo che distribuisce massime a un cronista che prende appunti. Per la sua autenticità e il suo essere alla mano è amato anche dai suoi colleghi, cosa non comune nel mondo patinato e competitivo di Hollywood. Il suo Hulk è tenero, dolce, spiritoso e un po’ trasandato, molto simile a come si presenta Ruffalo fuori dallo schermo. Del resto il nuovo Thor: Ragnarok è diretto da Taika Waititi (autore di piccoli capolavori come Selvaggi in fuga), scelto proprio per le sua anticonvenzionalità, capace, secondo i produttori, di rivitalizzare con una buona dose di satira e umorismo una serie arrivata al terzo episodio.

Mark Ruffalo: «Il mio Hulk è tale e quale al mio papà». L’attore interpreta il supereroe (il film sarà nelle sale italiane dal 26 ottobre) ispirandosi alle teste calde della sua famiglia italiana. Lui, invece, si controlla con la meditazione. A Hollywood Mark Alan Ruffalo è un’eccezione. È amato dalla critica per i suoi film più seri ma anche dal pubblico per le interpretazioni dei più grandi blockbuster degli ultimi anni: Avengers, Iron Man, Hulk… E tutto questo nonostante le tante avversità che la vita gli ha riservato. A un certo punto, aveva così tanti problemi personali che ha avuto la forte tentazione di cambiare lavoro. Attore consumato, riesce a distinguersi in produzioni che passano al microscopio alcuni dei temi più controversi e dibattuti della società americana: l’inseminazione artificiale (I ragazzi stanno bene), la malattia mentale (Teneramente folle), la lotta contro l’Aids (il bellissimo film per la tv The Normal Heart) la pedofilia nel clero (Il caso Spotlight), ottenendo nomination ai premi più prestigiosi (tre agli Oscar, cinque ai Golden Globes e sette ai Bafta) e ricevendo nel 2014 il prestigioso Britannia Award per meriti umanitari.

Chi è? Mark Ruffalo, 49 anni, è nato il 22 novembre del 1967 a Kenosha, in Wisconsin. Come suggerisce il cognome, ha origini italiane da parte di padre, mentre la madre era per metà italiana per metà franco-canadese.

Cos’ha fatto? Molti film a partire dal 1989: ha ricevuto una nomination agli Oscar 2011 per I ragazzi stanno bene

Chi l’ha già fatto prima? Bill Bixby (Banner) e Lou Ferrigno (Hulk) in un famosa serie tv andata in onda dal 1977 al 1982; in tempi più recenti, Eric Bana nel film di Ang Lee del 2003 e Edwart Norton nel film di Louis Leterrier del 2008

Com’è Hulk in questo film?
«Stavolta possiamo ascoltare la sua voce e sentirlo esprimere il suo pensiero. È sempre più arrabbiato con il mondo. Brutta notizia per Banner, perché significa che sta perdendo il controllo. Sa di essere intrappolato all’interno di Hulk: due personalità diverse, in conflitto costante, all’interno della stessa persona. Entrambi vogliono vivere la propria vita. È una situazione umana, in equilibro precario».

Quando ha saputo che Waititi dirigeva il film qual è stata la sua reazione?
«Grande sorpresa. Taika è un regista decisamente fuori dagli schemi, capace di combinare azione e umorismo. L’ho trovata una scelta audace da parte della Marvel».

Com’è stato lavorare con lui?
«Improvvisa molto. Sul set gli piace sperimentare, è aperto alla collaborazione. Scherza, intrattiene, è pieno di entusiasmo. Vive di musica, per lui fonte di ispirazione molto importante, e il suo lavoro è come un pezzo jazz: conosci la canzone che stai suonando, ma ognuno contribuisce autonomamente al processo creativo, bisogna conoscere il repertorio, studiare l’armonia e fare pratica».

Nel 2002 ha scoperto di avere un tumore benigno al cervello. Nonostante la malattia, che stava per farle lasciare il cinema, è riuscito a diventare una star. Come ha fatto?
«Anche se non si può ringraziare un tumore, da quel momento sono cambiate tante cose nella mia vita. Ho diretto il mio primo film, Sympathy for Delicious, ho imparato a controllare la mia ansia con la meditazione, mi sono appassionato al giardinaggio e di conseguenza ho cominciato a impegnarmi come attivista ambientale. Ho iniziato a lottare, grazie al coinvolgimento dei miei vicini di casa, con forza contro il fracking, il devastante metodo per estrarre petrolio e gas fratturando le rocce con liquidi a pressione altissima. Non ho mai voluto usare il mio status d’attore per attirare attenzione, ma in questo caso è stato utile per portare il problema all’attenzione dei media. Non penso che il mio attivismo possa cambiare direttamente la vita di qualcuno, ma può introdurre nel discorso pubblico argomenti che altrimenti resterebbero nascosti. È chiaro che all’uno per cento della popolazione, quello dei grandi accumulatori di ricchezze, non piace parlare dei problemi della gente comune. Ma dovremmo avere capito che non c’è un problema che ci riguarda e uno che non ci tocca. Gli effetti devastanti dei mutamenti climatici ci hanno drammaticamente chiarito che siamo tutti direttamente coinvolti. È arrivato il momento di protestare in massa. Il mondo è diventato un posto molto oscuro, e noi dobbiamo essere uniti nella lotta, non divisi come ci vorrebbe Trump».

Come si è avvicinato alla meditazione?
«Grazie a un amico caro del liceo. Fragile e testardo si è ritrovato a frequentare persone sbagliate e farsi di droga pesante. L’ho incontrato dopo anni che non lo vedevo e l’ho trovato completamente trasformato: calmo e rilassato, mentre prima era collerico e insopportabile. Gli ho chiesto qual era il suo segreto. Io, soprattutto dopo la morte di mio fratello Scott, sono diventato una persona molto ansiosa. Il mio amico mi ha rivelato che la meditazione gli aveva cambiato la vita e da allora, sono passati già sette anni, medito ogni giorno. L’approccio con il mio lavoro è cambiato, ora sono capace di rallentare il tempo, di controllare il mio istinto, di guardare il mondo con speranza sebbene non ce ne sia molta. Anche a Hulk farebbe bene meditare, ma non sono sicuro che ci riuscirebbe».

E la passione per la recitazione?
«L’ho scoperta a otto anni. Sono sempre stato il preferito della nonna perché l’aiutavo in cucina. La sera, quando tutti andavano a letto, mi veniva a chiamare e insieme guardavamo un film. Una notte ho visto Marlon Brando in Un Tram che si chiama Desiderio. Il giorno dopo sono andato a scuola e mi sono iscritto al corso di teatro».

Poi ha studiato recitazione alla prestigiosa scuola di Stella Adler. Che cosa ricorda di quel periodo?
«Che c’erano tanti ragazzi più bravi di me. Il primo giorno ho visto l’alunno più bravo e ho iniziato a dubitare del mio talento. Era così carismatico che quasi stavo decidendo di mollare perché ero sicuro che non avrei potuto recitare come lui. Era un certo Benicio Del Toro… Un uomo molto gentile che si è complimentato tante volte con me durante l’anno di studi. Siamo ancora molto amici».

Qual è stato il periodo più duro della sua carriera?
«Quando mio fratello, più giovane di me, si è stancato della situazione precaria che vivevo nei primi anni di carriera e ha deciso di smettere di pagarmi i conti. Mi disse che forse, a 27 anni, dovevo svegliarmi. Facevo di tutto, ma guadagnavo pochissimo. Ero così povero che mi compravo un burrito al mattino, lo dividevo a metà, e quello era sia il pranzo che la cena. Fortunatamente mia madre credeva in me e grazie a lei sono sopravvissuto. Poi nel 1994 ho girato l’horror Mirror, Mirror 2: Raven Dance, il mio primo successo cinematografico. Sono sempre stato dislessico, a scuola facevo fatica, recitare era davvero l’unico mestiere in cui avrei potuto avere una carriera».

Perché ha deciso di vivere in una fattoria a due ore da Manhattan?
«Tutto merito di mio nonno calabrese, che ha sempre avuto un orto e la voglia di sporcarsi le unghie. Quando con mia moglie Sunrise e i nostri tre figli ci siamo trasferiti a Callicoon abbiamo chiesto a un naturalista indiano americano di darci una mano

a capire cosa potevamo coltivare. Grazie a lui ho scoperto le proprietà medicinali delle piante selvatiche… C’e tanto da imparare dalla natura. Se conosci le piante, trovi il rimedio a tante cose senza toccare nemmeno un farmaco».

Mark Ruffalo è nato il 22 novembre del 1967 a Kenosha, in Wisconsin. Come suggerisce il cognome, ha origini italiane da parte di padre, mentre la madre era per metà italiana per metà franco-canadese.
La famiglia Ruffalo, padre, madre e tre figli, si trasferisce presto a Virginia Beach, in Virginia, dove Mark passa l’infanzia e l’adolescenza, fino al termine del liceo quando un nuovo trasloco lo porta prima a San Diego e poi a Los Angeles. Lì, dando sbocco professionale a una passine coltivata da sempre, frequenta prima lo Stella Adler Conservatory, e poi è tra i fondatori della Orpheus Theatre Company. Per nove anni anni, mentre sbarca il lunario lavorando come barman, si occupa di scrivere, recitare, costruire scenografie e gestire le luci per la compagnia: è così che incontra il commediografo e sceneggiatore Kenneth Lonergan, che nel 2000 gli regalerà il suo primo ruolo da protagonista al cinema, quello in Conta su di me, che gli valse numerosi apprezzamenti, premi e paralleli col grande Marlon Brando.
In precedenza, per tutti gli anni Novanta, Ruffalo aveva ottenuto solo piccole parti in film come A Song for You (suo esordio), The Dentist, Safe Man e Studio 54.

Il successo di Conta su di me ne lancia la carriera, e arrivano film come Il castello nel 2001 e Windtalkers nel 2002.
In quello stesso anno, però, proprio quando aveva ottenuto il ruolo da protagonista poi andato a Joaquin Phoenix nel Signs di M. Night Shyamalan, a Ruffalo viene diagnosticato un tumore benigno al cervello, in seguito al quale si ritrova anche con una semi-paresi al volto. Le cure, fortunatamente, sono abbastanza veloci e non lasciano conseguenze, tanto che già nel 2003 l’attore è protagonista, con Meg Ryan, del thriller erotico di Jane Campion In the Cut, nel quale interpreta il ruolo di un ruvido e brutale detective.
Ristabilito e rilanciato, Ruffalo interpreta così il ruolo dello scienziato Stan in Se mi lasci ti cancello, è al fianco di Jennifer Garner in 30 anni in 1 secondo e lavora col grande Michael Mann in Collateral.
Nel 2007 David Fincher lo sceglie per il ruolo del detective David Toschi in Zodiac e poi, dopo film come Reservation Road, The Brothers Bloom e Blindness, adattamento del romanzo di Saramago, arriva nel 2010 il ruolo di Paul ne I ragazzi stanno bene di Liza Cholodenko, che gli vale una salve di premi e nomination. E, nello stesso anno, debutta nella regia con Sympathy for Delicious, ottenendo il premio della giuria al Sundance Film Festival.

Dopo essere stato spalla di Leonardo Di Caprio nello Shutter Island di Martin Scorsese, Mark Ruffalo entra nell’universo Marvel intepretando Bruce Banner e il suo alter ego verde, Hulk, in The Avengers, legandosi così ad una delle più importanti franchise del momento: ma questo non gli impedisce di recitare in film di genere del tutto diverso come Now You See Me, Tutto può cambiare e sopratutto Foxcatcher e Infinely Polar Bear, che danno ulteriore prova del suo talento e della vastità del suo range interpretativo.
Sposato dal 2000 con l’ex attrice Sunrise Coigney, dalla quale ha avuto tre figli, Ruffalo è vegetariano e politicamente impegnato sul fronte democratico. A favore dell’aborto e scettico relativamente alle verità ufficiali sull’11/9, l’attore è molto attento alle problematiche ambientali e legate alla sostenibilità: in particolare è impegnato in una battagli contro la pratica del fracking, e ha contribuito alla diffusione del documentario Gasland finendo così nella “watch list” dall’Ufficio di sicurezza nazionale della Pennsylvania.