di Giuseppe De Pietro

Il vino eleva l’animna e i pensieri e le inquetudini si allontanano dal cuore dell’uomo. Una gustosa pozione magica che non conosce sosta, un’etichetta vitivinicola che ha fatto la storia dell’eccellenza del vino in Italia, Berlucchi di Corte Franca. Cristina Ziliani e tra le signore italiane del vino – un elenco non sterminato ma in crescita esponenziale – c’è il volto femminile del brand Berlucchi. Primogenita di Franco Ziliani, l’enologo pioniere del Franciacorta che nella metà degli anni ’50 scatenò la rivoluzione enologica delle colline tra Brescia e l’estremità meridionale del Lago d’Iseo, la donna è il deus ex machina del comparto marketing e delle relazioni esterne del marchio fondato dal padre con Guido Berlucchi e Giorgio Lanciani, diventata poi una delle aziende leader nel settore del metodo classico. Ma che ruolo giocano le donne nel mondo del vino, percepito ancora come un universo molto maschile? E come ci si cuce addosso il proprio ruolo in azienda? Agrodolce lo ha chiesto direttamente a Cristina Ziliani, che si racconta per la prima volta svelando qualche suo lato inedito e più privato.

Cristina, cominciamo facendo un tuffo quasi proustiano nella tua memoria. Qual è il primo ricordo di bambina legato all’azienda di famiglia?
Stranamente non è un profumo o un colore ma un ricordo fisico. Non mi sono mai scordata delle nostre collaboratrici che incartavano le bottiglie con la velina. Me le ricordo come fosse ieri, tutte schierate nella parte più rustica di Palazzo Berlucchi: l’azienda allora era concentrata lì, nelle stanze che ora chiamiamo granaio, dove si svolgevano i lavori finali e le etichette erano incollate a mano. Ho impresso il gesto veloce e la perizia con cui realizzavano l’invelinatura. Forse per quello ancora oggi voglio portare avanti questo dettaglio che esprime grande cura.

C’è stato un momento in cui sei rimasta folgorata dal mondo del vino o è qualcosa di impresso nel DNA di famiglia?
Sono sincera, non avevo la vocazione e non c’è stata alcuna folgorazione. Mi sono innamorata di questo mondo un po’ alla volta. Non so se avrei fatto questo mestiere. Ho iniziato a lavorare in azienda nel 1981, in anni molto diversi dal contesto attuale. Mio padre aveva già identificato i ruoli che avremmo dovuto assumere: mio fratello Arturo sarebbe dovuto diventare l’enologo, e così è stato, Paolo invece era quello che avrebbe dovuto curare la parte commerciale e i rapporti con i clienti. Io invece dovevo occuparmi della parte amministrativa, salvo scoprire di essere totalmente negata. Un po’ alla volta mi sono ritagliata la mia fetta di lavoro nel marketing, che allora non si chiamava così: la mia natura ha più a che fare con la creatività, cosa che allora sembrava un dettaglio secondario.

Era un mondo molto più misogino rispetto a ora?
Faccio un esempio: quando mio padre quando partiva per lo Champagne, portava i miei fratelli mentre io restavo a casa. Non gliene faccio una colpa, sia chiaro, ma all’epoca c’era una concezione diversa e l’universo del vino era qualcosa di profondamente maschile.

Oggi produttrici e sommelier donna si sono moltiplicate in maniera esponenziale. Secondo te a che punto siamo?
Il mondo della produzione è ancora molto maschile, forse per una questione di mero pragmatismo e tecnica. Le donne però sono le più creative e senza creatività ed emozione oggi il vino non si fa più: la tecnica da sola non basta. Il margine di crescita è molto alto: penso all’ambito della degustazione, dove le donne hanno una capacità olfattiva e d’identificazione dei profumi più alta rispetto agli uomini. Io non sono un’esperta ma mi rendo conto che se percepisco dei sentori vellutati o dei profumi particolari, oggi sono ascoltata con maggiore attenzione rispetto al passato.

Da tuo padre Franco, considerato il pioniere del Franciacorta, che caratteristiche hai ereditato?
Non credo nell’eredità dal punto di vista caratteriale, perché al massimo si assumono delle caratteristiche per imitazione. Più che ereditato, ho imparato la correttezza nei confronti dei collaboratori e degli azionisti: l’azienda intesa non come proprietà di chi la possiede ma di tutti quelli che ci lavorano. In tanti si meravigliano che ancora oggi mio padre acquisti una bottiglia in azienda, la paghi e si faccia fare lo scontrino.

Quali sono i principi per te davvero irrinunciabili nella gestione dell’azienda?
Il rispetto totale per il territorio, ovvero l’impatto limitato sull’ambiente e sulla comunità. Non siamo solo ciò che produciamo, ma come agiamo. È un mantra per me e i miei fratelli.

Hai a disposizione solo tre aggettivi per descrivere la Franciacorta. Quali useresti?
Per me è una terra emozionante. Soprattutto in primavera e in autunno: la natura è ordinata, tanto da sembrare un giardino. Io percorro la stessa strada da 30 anni e ogni giorno mi emoziono. Poi direi dinamica, perché chi la vive sa stupire e innovare: qui la gente non si ferma mai, scrive ogni giorno la sua storia. E poi appassionata. I produttori sanno fare squadra e agire in maniera compatta, sintomo di un profondo orgoglio che forse sta nel dna di chi in Franciacorta ci è nato e di chi ci vive.

Scopriamo un po’ i tuoi gusti personali. Quali sono le tue bollicine preferite?
Non ho dubbi: il Saten è uno dei prodotti che mi danno grande emozione. Io lo definisco il più Franciacorta dei Franciacorta, forse perché è un brand depositato ed è una creazione autoctona. All’inizio nessuno si aspettava che il satin, fatto con chardonnay senza pinot nero, avrebbe avuto un gusto così suadente.

Altri vini che non mancano mai nella tua cantina?
Bevo molto col naso, perciò scelgo bottiglie che devono stimolarmi l’olfatto. Amo molti i vini del Collio, ad esempio. Tra i vini piemontesi mi piace il barbaresco, il più balsamico tra i piemontesi: ma confesso di non essere una grande amante dei vini rossi, perché mi disturba l’alcolicità.

Che mi dici invece di Nature, il nuovissimo Franciacorta Millesimato – che amplia la linea ’61, collezione che porta nel nome l’anno di nascita del primo Franciacorta, creato nel 1961 –presentato di recente al Vinitaly?
Mi ha conquistato al primo assaggio, forse perché incarna la più pura espressione di questo territorio. È un prodotto che mi ha trasmesso una morbidezza particolare, per via della scelta accurata delle uve e della pressatura che consente di ottenere la parte più nobile dell’acino. Essendo proposto senza il beneficio dello sciroppo di dosaggio, viene fuori la sua anima più vera, schietta.

Sei una di quelle persone che beve le bollicine a tutto pasto?
Assolutamente sì. Con i piatti di pesce delicati prediligo il Satin. Di recente abbiamo abbinato uno dei nostri vini con un risotto di quinoa e merluzzo realizzato da Moreno Cedroni, uno chef che stimo molto. L’abbinamento è risultato perfetto.

A proposito di chef: quali sono i tuoi preferiti?
Ce ne sono moltissimi, dal già citato Cedroni a Davide Oldani, da Sadler ai fratelli Cerea fino a Massimo Bottura, che per me è un poeta dalla cucina. L’elenco è sterminato. Mi piace la creatività degli chef, il loro ingegno e l’essere riusciti negli ultimi anni a dare alla cucina italiana un’identità ancora più precisa.