di Giuseppe De Pietro

Un tonno vola in cielo, un altro lo segue, poi altri ancora. Anche una decina contemporaneamente. Ricadono sul legno della prua del peschereccio, alle spalle di moderni pescatori seduti in fila lungo i bordi da cui fanno roteare le canne da pesca. Particolari. Lunghe, semplici, elastiche. Oceano Pacifico occidentale, nei pressi dell’Equatore, a nord-est dell’Australia. Queste sono le isole Solomon o Salomone (in italiano). Nome ispirato dal biblico re.
Le Salomone, in questo incantevole arcipelago furono gruppi di navigatori-mercanti provenienti dalle isole Figi. Le isole si allungano su un duplice festone per ca. 800 km dallo stretto di Bougainville all’isola di San Cristobal; le principali sono, da N a S, Choiseul, Santa Isabel, New Georgia, Malaita, Guadalcanal e San Cristobal. Di origine per lo più vulcanica (talune sono coralline, come l’atollo di Ontong Java), le Salomone si presentano aspre e montuose, culminando a 2447 m nel Mount Makarakomburu, nell’isola di Guadalcanal. Il clima è equatoriale, caldo e piovosissimo, in media con oltre 3000 mm annui di precipitazioni, ma con valori di anche 7000 mm all’anno sui versanti montuosi direttamente investiti dagli alisei di SE. La popolazione è formata in grandissima parte da melanesiani. La metà degli abitanti si concentra nelle due isole di Guadalcanal e di Malaita. La rimanente popolazione vive in genere in villaggi situati sulla costa o lungo il corso dei fiumi, che spesso rappresentano le uniche vie di penetrazione verso l’interno.

La copertura vegetale più tipica è data dalla foresta pluviale che riveste oltre tre quarti del territorio delle isole ed è messa a rischio dalle opere di deforestazione incontrollata. La foresta e la barriera corallina, che circonda quasi tutte le isole e risulta fortemente danneggiata, ospitano una grande varietà di specie, alcune delle quali endemiche. Nel 1998 l’UNESCO ha dichiarato patrimonio dell’umanità il sito di East Rennel, il più grande atollo corallino emerso al mondo.

Un rais c’è sempre, scruta il mare e guida il lancio delle esche attrattive. Niente sangue, niente mattanza, meno tonni pescati: fondamentale per mantenere gli equilibri e rispettare la riproduzione. Uno dei santuari di questo rituale sono proprio gli incontaminati mari delle isole Solomon. Qui il tonno si pescava così, e si sta tornando a farlo. È la Natura che dona il cibo. Mai approfittarne. Se si ha fortuna, e la barca si trova nel punto giusto, nel cielo mentre i tonni volano si può vedere il vapore misto a lava che spara in cielo dal fondale marino il dio vulcano. Kavachi. O Kavazi nella lingua Vangunu, la più diffusa tra i 74 idiomi diversi, quattro dei quali (il dororo, il guliguli, il kazukuru e il vano) sono ormai estinti. Il cratere è a 25 metri di profondità, le bombe incandescenti che erutta salgono fino a 70 metri nel cielo. Ogni tanto (2000, 2003, 2004, 2010) si manifesta in modo più violento. Ma normalmente è simile a una fumarola e ogni tanto fa emergere la sua isoletta «personale».
Non si va nel paradiso terrestre, dove l’unica cosa che non abbonda sono i soldi, per vedere la pesca del tonno. Ma quando capita di osservare i pesci volare, viene voglia di prendere uno dei pescherecci targati Soltuna (l’azienda ittica che ha base a Noro, nell’isola di Munda) come fosse un boat turistico. Un tour immancabile per gli amanti delle isole vulcaniche, fuori dell’acqua o immersi (snorkeling o sub) tra pesci multicolori, coralli e alghe. Un perfetto giardino giapponese subacqueo. Alterato solo quando uno tsunami lo ridipinge.
Il bambino nero di pelle con i ricci biondi non te lo aspetti. Sbuca da dietro un pianta di croco gigante che ombreggia una kasbah ordinata che è il mercato melanesiano: un centro di gravità permanente nelle varie isole. Un croco sì, pianta ornamentale dei nostri salotti che qui tocca altezze arboree. Nero dai capelli biondi? Solo alle Solomon si possono incontrare. È deriva genetica, non frutto delle presenze nord europee. Sono geni locali. Melanesiani. Una mutazione del cromosoma 9 che riguarda il 10 per cento della popolazione. Neri biondi. Gli occhi del bambino sono grandi e bianchi come il sorriso che lascia esplodere quando gli ridiamo il pallone che l’aveva preceduto. Il calcio è lo sport nazionale nelle Solomon. Il bimbo gioca a piedi nudi, così come si vive qui: le etnie che popolano le isole (su cui si spalmano 500 mila abitanti, un quinto nella capitale Honiara) non sopportano le scarpe, vere costrizioni per i loro piedi più larghi avanti, come piccole pinne. Le infradito sono il massimo dell’eleganza. È naturale per loro nuotare, come girare in mare con le tipiche canoe tratte da un tronco di legno scavato e affusolato.

Il delfino è animale sacro, così come il dugongo, altro simpatico mammifero marino di 300-500 chili per tre metri di lunghezza. L’unico brucatore dei mari, alghe invece di erba. Una mucca marina. Fotografarne un branco non è difficile e alle Solomon si va anche per questo. Nello stemma dello Stato campeggiano uno squalo e un caimano. E il motto ufficiale recita: «Comandare è servire». Forse è ispirato da qualche colonizzatore. L’etnia largamente prevalente è quella dei melanesiani, primi abitanti delle isole. Loro non amano servire.
La pesca è una risorsa economica e gli italiani hanno compreso che le migliaia di dipendenti trovano in questo lavoro, dalla cattura alla lavorazione, un momento di aggregazione tra tribù, di stimolo allo studio per crescere nella scala sociale. Un elemento di aggregazione tra etnie sempre ostili tra loro. I capi tribù sono d’accordo. Infine c’è la pesca sostenibile: pole&line (a canna), quella senza trappole o trucchi, vietato il tonno rosso. Indigeni d’accordo. I patti: entro il 2017 si pescherà solo così. La sera, tramonto da favola e cucina melanesiana: granchi, aragoste, taro, riso, manioca, ortaggi e frutta tropicale. La copra, preparata con cacao e cocco. Quello che costa meno è il pesce. Un’aragosta al mercato costa quanto un pacchetto di sigarette.