di Giuseppe De Pietro

Ho deciso di ritornare in Ecuador, avevo tanta voglia di vedere di nuovo le Ande dopo tantissimi anni. Partenza da Roma con Iberia per un rapido scalo a Madrid. Da Madrid, undici ore su un aereo della LAN Chile per arrivare in Ecuador, a Guayaquil. Lì rapido cambio di gate per un’altro volo interno, soli tre quarti d’ora, per atterrare in serata a Quito. La seconda capitale più alta del mondo.
L’Ecuador deriva il suo nome dal fatto di essere attraversato dall’Equatore. Non dimenticate mai il cappello, sia per la posizione geografica che per il fatto di essere sempre ad altezze notevoli tra i 3000 ed i 4000 metri ed il sole picchia tantissimo. Tendenzialmente le temperature sono miti, ma in montagna il tempo cambia velocemente. Per cui occorre avere sempre capi che comunque dal tramonto in poi sono d’obbligo.
Siamo in un hotel del centro storico. E’ un albergo molto buono, con un ottimo ristorante panoramico. L’itinerario prevedeva un paio di giorni in Amazzonia, lungo il Rio Napo, per poi visitare gli altopiani andini con le città di Quito, Baños, Cuenca ed i vulcani Cotopaxi e Chimborazo. Il viaggio alle Galapagos, ci ha portato sulle isole di Baltra, Genovesa, Bartolomé, Santa Fe, San Cristòbal, Española, Floreana e Santa Cruz.
Ovviamente presentava le sue complicazioni, le altezze notevoli raggiunte sulle Ande di 5100 metri, raggiunto sul vulcano Chimborazo.

Al mattino, dopo fatta la colazione, una ricognizione nel centro storico di Quito, abbastanza contenuto come estensione e si visita con relativa facilità a piedi. Proprio di fronte all’albergo abbiamo la Iglesia de Santo Domingo. Da lì abbiamo poi raggiunto la Plaza Grande, dove si affacciano i palazzi del Governo. E quindi abbiamo visitato la Catedral Metropolitana, El Sagrario, la Iglesia de la Compañia de Jesùs e la Iglesia de San Francisco con relativo museo annesso. Avremmo dovuto attendere Giovanni, il nostro autista e guiderà il nostro mezzo nelle prossime due settimane. Subito ci porta con il bus sulla cima della collina detta El Panecillo. Siamo a 3000 metri e la vetta è sormontata dalla enorme statua della Vergine del Panecillo, alta ben 45 metri. Dal parco si domina tutta Quito e si scorgono i vulcani che circondano la capitale, tra cui il Cotopaxi (5897 metri) ed il Cayambe (5790 metri).

Abbiamo mangiato lì in un piccolo ristorante di zona che cucinano alla brace carne di ogni genere, il tempo era splendido, il cibo buono e la birra Club pure. Dopo pranzo siamo andati alla Mitad del Mundo, come chiamano qui l’Equatore. Abbiamo Raggiunto San Antonio de Pichincha, dove abbiamo visitato il Museo Intiñan all’aperto ed è risultato più interessante di quello che pensavamo. Sono state ricostruite delle capanne che riproducono il modo di vivere e le usanze delle antiche culture pre-colombiane. Mi ha colpito molto un diorama rappresentante la zona amazzonica, con tanto di anaconda impagliata e soprattutto con la possibilità di vedere una vera testa rimpicciolita. Affascinante. Ne avevo già viste alcune in altri paesi, ma sempre sotto una teca. Ci spiegano che le teste dei nemici vinti venivano disossate e bollite. Poi, riempite di pietre per mantenerne la forma, venivano fatte essiccare. Erano poi inserite sulla punta dei bastoni degli sciamani o portate al collo dai grandi capi delle tribù.
Alla fine del museo c’è la zona “sperimentale”, dove vengono eseguite delle dimostrazioni su alcuni fenomeni naturali legati alla linea dell’equatore. Uno di questi vuole rendere visibile la Forza di Coriolis e prevede che, stappato un lavandino, l’acqua cada in senso orario nell’Emisfero Boreale ed in senso antiorario in quello Australe.

La mattina lasciamo Quito per i nostri due giorni in Amazzonia. Sebbene il mese di agosto sia in piena stagione secca, il tempo è comunque abbastanza variabile. Viaggiamo sotto un cielo plumbeo e pesante. Ci dicono che in Amazzonia ha piovuto molto nei giorni passati – ma non era la stagione secca?!? – e che la via che avremmo dovuto percorrere è allagata. Ragion per cui ci alziamo all’alba, perché dobbiamo necessariamente allungare il percorso per aggirare l’ostacolo.
Alla fine arriviamo alla nostra meta: El Jardin Aleman. La zona è quella di Puerto Misahuallì, sul Rio Napo. E’ da queste parti che Francisco de Orellana iniziò la sua avventura in cerca del mitico El Dorado. Non trovò la città perduta, ma scoprì il Rio delle Amazzoni, di cui il Rio Napo è un affluente, e lo percorse fino all’Atlantico.
All’arrivo al Jardin siamo subito accolti dal personale, che annovera anche alcune are coloratissime che hanno eletto a propria dimora la struttura. Sono animali feriti che ormai svolazzano da un capo all’altro della zona ricreativa del Jardin. La sistemazione è ottima. Bungalow per due persone, zanzariere alle finestre, amache nelle verande. E tanto verde. I viali del Jardin Aleman sono curati, con tanti fiori a rallegrarli. Siamo ai bordi della foresta pluviale: un enorme, forse infinita distesa verde. Vista così non sembra un ecosistema fragilissimo, qual è in realtà. Qui le piante che facciamo crescere nei vasi dei nostri balconi sono alberi torreggianti. A guardarli sembra di essere sulla Isla Nubla di Jurassic Park. Ti senti piccolo piccolo e ti aspetti veramente che un lucertolone gigante faccia capolino tra quelle fronde!
Staremo qui due giorni, il giorno dopo sono previste due escursioni a piedi nei pressi del Jardin. Prenderemo una lancia fluviale per addentrarci in una zona meno antropizzata. Ci spiegano che non vedremo i grandi animali dell’Amazzonia, i giaguari o le anaconde. Vivono molto più all’interno della foresta e comunque con il nostro chiacchiericcio li faremmo comunque allontanare!
Come dicevo la giornata è splendida ed assolata. Il Jardin Aleman ci fornisce degli stivali, visto che cammineremo nel fango in quanto, piove ogni santo giorno, anche nella cosiddetta stagione secca. Quindi il fango è sempre presente nelle passeggiate.
L’indomani neanche facciamo i primi passi nella foresta che iniziano le prime scivolate e le prime cadute. Ci si muove su sentieri già battuti e la camminata dura tutta la mattinata. Mi sento di dire che il livello di difficoltà di queste escursioni sia semplice. Ma se non si ha un buon senso dell’equilibrio si rischia di farsi male, proprio per la poca aderenza del suolo. La foresta è immensa e percorrerla su e giù per i suoi pendii è una scoperta continua. La nostra guida ci illustra piante ed insetti che incrociamo. Mi sono rimasti impressi nella memoria un ragno scorpione ed una grossa tarantola e i quattrocentottanta anni portati più che egregiamente da questo gigante vegetale. E’ altissimo ed ha questo tronco imponente con queste radici enormi. Come mi sento piccolo e precario di fronte a tanta magnificenza espressa dalla Natura, quella con la lettera maiuscola.

Oggi invece il tempo non ci è favorevole, basse nuvole su di noi. Andiamo a Puerto Misahuallì per imbarcarci su una lancia fluviale. Lungo il fiume scorgiamo vari accampamenti. Tende, carriole, setacci: uomini, donne, ragazzi che cercano l’oro nelle acque del Rio Napo. Auguro mentalmente loro di incappare in qualche grammo di ricchezza. Superate varie anse, raggiungiamo una località chiamata Misicocha, nei pressi di Ahuano. Lì sbarchiamo e ci ripariamo sotto una tettoia munita di tavoli e panche. Alleggeriti del bagaglio, bardati di keyway o mantelle ci inoltriamo nella foresta che più pluviale di così non poteva essere! Eppure questo viaggio avventuroso è stato anche più affascinante di quello di tantissimi anni fa. Sotto le fronde degli alberi poi la pioggia non è nemmeno così intensa come sulle sponde del Rio Napo. E soprattutto abbiamo a sensazione di vivere veramente l’Amazzonia per quello che è veramente.

Dopo un’ora e mezza, ritorniamo all’imbarcadero e pranziamo. Poi risaliamo sulla lancia e ci fermiamo poco prima di Puerto Misahuallì in un villaggio indigeno. Ovviamente ci aspettiamo di sbarcare in un villaggio “turistico” (ditegli di andare a togliersi giacca e cravatta prima che sbarchiamo scherza uno di noi). Per trovare le tribù amazzoniche la cui cultura è ancora, nei limiti del possibile, quella originaria bisogna addentrarsi di molto nella foresta. Questi villaggi comunque possono darci un’idea di quella che è la cultura delle tribù locali. Ci accolgono in una grande capanna dove ci spiegano alcune loro tradizioni e ci illustrano come fanno la chicha, è una sorta di birra non fermentata che tra l’altro assaggiamo. Comunque la bevanda originaria viene preparata dalle donne che masticano il mais e lo sputano in un contenitore. Comunque la nostra puntata in Amazzonia l’abbiamo fatta e ci ha soddisfatto. Lasciamo il villaggio e torniamo a Puerto Misahuallì. Nella piazza del villaggio vivono alcuni babbuini, sono dispettosi e vi possono saltare addosso per impossessarsi di quello che portate in mano.

Classica giornata che parte come “di solo spostamento” e che invece riserva una sorpresa inattesa! Lasciamo l’Amazzonia per tornare sulle Ande. La nostra meta è Baños, a 160 km da Ahuano. Tutti in curva ed in salita ovviamente. Finché a venti chilometri da Baños non ci fermiamo per pranzo e per vedere una cascata, El Pailòn del Diablo. Questa è veramente straordinaria, con il suo sentiero scavato nella roccia fin sotto il muro d’acqua! Prima percorriamo il sentiero che si apre sotto la cascata. Sull’ultima terrazza siamo bagnati come pulcini. Poi percorriamo un secondo sentiero che, tramite un paio di ponti tibetani, ci porta sopra la cascata stessa.Nel pomeriggio raggiungiamo Baños de Agua Santa. Ci sistemiamo in hotel e visitiamo la città. Baños è una località molto nota in Ecuador, con molteplici attività outdoor: rafting, kayak, equitazione, mountain bike, ecc. Noi, restando solo per la serata, e ci limitiamo a visitare la Basilica de Agua Santa e le terme. La chiesa è molto suggestiva, decorata con numerosi quadri ex voto che testimoniano i vari miracoli effettuati dalle acque di Baños. Chiudiamo la serata con una spettacolare grigliata mista e vino rosso.

Lasciamo Baños per il Vulcano Cotopaxi. Il Cotopaxi con i suoi 5872 metri di altezza è la seconda montagna più alta dell’Ecuador. Battuto solo dal Chimborazo, un monte alto 6310 metri. Resta però il terzo vulcano più alto del mondo (dopo l’Ojos del Salado in Cile ed il Sabancaya in Perù). Il Cotopaxi alla vista è straordinario, con il suo cono perfetto cinto da ghiacciai che si staglia contro il cielo. Facciamo una prima sosta a 3600 metri dove c’è un piccolo museo in cui ci illustrano la storia geologica della zona. C’è anche un piccolo locale dove è possibile degustare mate de coca, il the alla coca che funge da facilitatore per adattarsi alla quota. Come mi spiegarono la storia non è così semplice: bisogna ruminare grandi quantità di foglie di coca insieme ad un catalizzatore, un minerale che permette l’estrazione della sostanza. Ma è pur sempre una bevanda calda che ristora e fare una pausa per berla vale sempre la pena.

Saliamo con il nostri bus fino ai 4600 metri, di lì si può raggiungere il rifugio a 4900 metri. Oggi soffro tanto l’affanno. un intrepido manipolo di avventurieri però non si fa scoraggiare e, bardato di tutto punto, raggiunge il rifugio. Al loro ritorno il vento ha spazzato via le nuvole e, come vedete dalla foto sopra, dal parcheggio la vista del cono avvolto dai ghiacciai è spettacolare!
Scendiamo poi a 3800 metri ad una laguna sempre nel parco del vulcano. Dopo un giro sulle sponde della laguna e qualche altra foto al Cotopaxi andiamo a Latacunga, dove alloggiamo presso un hotel ricavato in una antica residenza coloniale spagnola ed ha annesso il ristorante. Decidiamo di provare a cena un piatto tipico del posto, il chugchucaras, un piatto con carne di maiale, platani serviti su delle empanadas.
Raggiungiamo il mercato, è forse uno dei momenti più belli del viaggio sulle Ande. Passiamo il tempo a girare per le varie sezioni del mercato: cibo, animali, abbigliamento mentre le persone del luogo pranzano o sono intente a contrattare. Dal maestro artigiano come al mercato. Sono tutti vestiti alla maniera tradizionale.
Restiamo un’oretta buona in giro per il mercato e poi ci avviamo alla Laguna Quilotoa. La laguna è un enorme lago sulfureo che occupa la caldera spenta di un vulcano. Guardarla dall’alto è semplicemente fantastico. Il tempo oggi non ci è favorevole: molte nubi, poco sole ed i colori cangianti dell’acqua si intravedono appena le poche volte che il sole fa capolino tra le nubi.

Alla sera andiamo a casa di amici che un tempo abitavano a Roma. Ci apparecchiano i tavoli nell’aia e finiscono di cucinare i cuy. Il sapore ricorda il coniglio ma è più gustoso. La carne è poca e va rosicchiata. Nel tardo pomeriggio torniamo a Latacunga e visitiamo la città e le sue chiese.
Ci spostiamo ad Alahusì prendiamo le stanze all’Hostal San Pedro. Ma perché siamo venuti qui? Per il treno. Eh si, qui c’è un treno che percorre quello che è rimasto della vecchia ferrovia che da Quito scendeva al mare a Guayaquil. Il tratto ancora in funzione unisce Alausì a Sibambe e percorre la Nariz del Diablo. La Nariz del Diablo è una montagna di 1900 metri con i fianchi a strapiombo.
Il tragitto è veramente poco interessante. Se sul treno divengono assegnati i posti a monte (lato destro del treno quando partite) avrete una vista sul panorama molto limitata e per fare due foto sarete costretti a chiudere il permesso a chi ha i posti a valle. Sibambe poi è una trappola per turisti. Sibambe infatti consiste solo di una stazione con le solite bancarelle. Sicuramente quando si viaggiava sul tetto del treno il viaggio valeva il biglietto. Oggi come oggi potete tranquillamente escludere la nari del Diablo da un vostro itinerario in Ecuador.

Da Alahusì andiamo sul Chimborazo. Come accennavo prima quando parlavo del Cotopaxi, il Chimborazo è la montagna più alta dell’Ecuador con i suoi 6310 metri. Anche se è più basso dell’Everest, la sua vetta è il punto più distante dal centro della Terra. Questo perché il nostro pianeta è schiacciato ai poli e slargato all’equatore. O forse… Forse bisogna cambiare punto di vista. La cima coperta dai ghiacci del Chimborazo è il punto della Terra più vicino al sole. Ed è anche il posto dove lavora l’ultimo mercante di ghiaccio dell’Ecuador.
Pascal è un membro della comunità locale che gestisce il parco del vulcano. Ci racconta che una volta l’ha scalato tutto, raggiungendone la cima. La scalata va fatta in notturna perché di giorno il calore del sole rende il ghiaccio instabile. Si arriva sulla cima, si vede l’alba e si scende. Con lui ci spostiamo sul bus fino al secondo rifugio, a 4800 metri. E qui un terzo del gruppo alza bandiera bianca. L’altezza si sente. C’è da fare a piedi questa salita fino al terzo rifugio, a 5000 metri. Ce la farò? Mi dico: proviamoci, alla peggio torno indietro. Al contrario della giornata sul Cotopaxi, oggi c’è il sole e poco vento. Ci avviamo e piano piano, facendo frequenti soste per rifiatare, raggiungiamo la nostra meta. Ci sediamo all’esterno del rifugio per recuperare un po’. Poi Pascal ci esorta ad un ultimo sforzo, sopra il costone di fronte a noi c’è una laguna. Sono soli altri 100 metri da salire. E li saliamo. E’ la stagione secca, lo ricordate? Ve lo dicevo quando parlavo dell’Amazzonia. Quindi la laguna in questa stagione è solo una pozzanghera! Ma non fa niente.
Cosa ci mancherebbe? Forse qualche bella foto del Chimborazo in eruzione. Scherziamo con Pascal: più tardi, quando siamo a valle, il Chimborazo erutta. Pascal ride e ci rassicura. Questo vulcano è spento da tempo immemore. In quel momento non lo sappiamo ma c’è veramente un’eruzione in corso. Dopo trent’anni dagli ultimi segni di attività ed un secolo da una vera eruzione, è il Cotopaxi che si è risvegliato! Lo scopriremo giorni dopo e lo vedremo cacciar fumo dalla caldera l’ultimo giorno, da Quito.

Lasciamo Alahusì per raggiungere Cuenca. Lungo il tragitto, tratteggiato dai soliti paesaggi stupendi, facciamo tappa alle rovine di Incapirca, in quechua vuol dire “muro dell’Inca”. Il nome si riferisce al tempio del sole, monumento abbastanza ben conservato in quella che era una fortezza degli invasori Inca. Queste zone infatti erano abitate dalla popolazione dei cañari, che combatterono strenuamente prima di essere assoggettati dal potente impero Inca.
Dopo pranzo lasciamo Incapirca e raggiungiamo Cuenca. Prima di andare in albergo andiamo a visitare una fabbrica di cappelli Panama, la Homero Ortega. Che c’entra una fabbrica di cappelli Panama in Ecuador, direte voi? Ecco, no. Il cappello è tipico dell’Ecuador e veniva utilizzato dai lavoratori del Canale di Panama. Fu Roosevelt in un discorso a riferirsi a lui come cappello Panama e quindi tutti lo conosciamo così. Qui è semplicemente el sombrero. Nella fabbrica c’è anche un museo ed una giovane guida ci spiega il processo di lavorazione. Serve un giorno e mezzo ad un artigiano per intrecciare un cappello. A seconda di quanto è fitto l’intreccio varia il pregio del cappello stesso. Si spazia dai venti i mille dollari. Tutta la procedura di fabbricazione dei cappelli è molto interessante. Alla fine del tour c’è la zona espositiva dove il gruppo si scatena nella prova cappelli e nello shopping.

Finalmente in albergo. L’Hostal La Orchidea ha il vantaggio di essere in pieno centro, sebbene sia una sistemazione senza pretese. Comunque prima di cena approfittiamo per un primo giro. Cuenca è, insieme a Quito, una delle più belle città dell’Ecuador, con un centro storico ricco di vestigia coloniali e di belle chiese. Rispetto agli altri posti dove abbiamo sostato finora, qui siamo veramente in una città. Non si vedono persone vestite con abiti tradizionali, le vie sono piene di negozi ed il traffico è abbondante. Ceniamo al Raymipampa, nel centralissimo Parque Abdon Calderon.

Il nostro programma originario prevedeva di passare tutto il giorno a Cuenca a marce forzate, anche perché la città è proprio bella. Tutti gli edifici in stile coloniale. All’inizio della mattina il tempo è incerto, ma a metà mattinata volge al bello. Pranziamo all’Inca Lounge, un locale lungo il Rio Tomebamba.  Subito dopo ci avviamo per il lungo trasferimento a Guayaquil. Sono circa 200 km da percorrere. Il tempo cambia di nuovo e salutiamo le Ande sotto un cielo plumbeo ed un po’ di pioggerellina. Una volta scesi al livello del mare le temperature salgono ed il clima diventa afoso. Lungo la strada per Guayaquil siamo circondati da bananeti su bananeti. Guayaquil è la più grande ed importante città dell’Ecuador. Si parte per le Galapagos. Salutiamo Giovanni, il nostro autista. Abbiamo diviso i bagagli. Il vestiario per le Ande ed i souvenir li abbiamo lasciati sul suo bus e ce li farà trovare in albergo a Quito. Portiamo con noi solo un bagaglio più contenuto, visto che passeremo una settimana in barca.

All’aeroporto e dopo due ore di volo ed atterriamo all’aeroporto Seymour, Isla Baltra, Galapagos. Appena atterrati altra fila per il controllo passaporto e per pagare 100 dollari in contanti di tassa di ingresso. Questi soldi vanno direttamente al Centro Darwin, la stazione scientifica che si occupa di preservare l’ambiente e la biodiversità nel Parco Nazionale delle Galapagos. Superati i controlli troviamo ad accoglierci la nostra guida. Julio è una guida naturalistica ed è nato e vive alla Galapagos. Ci fa salire su dei torpedoni che ci portano al porticciolo, dove veniamo imbarcati sulla nostra nave, la Golondrina (la Rondine). Qui sul sito è riportato l’itinerario di massima previsto. Il giro completo dell’arcipelago prevede quindici giorni di crociera. In una sola settimana si vedranno solo alcune isole. Gli itinerari sono prestabiliti ed autorizzati dal Parco Nazionale. Sono comunque pensati per far vedere ai turisti più o meno le stesse specie animali presenti nell’arcipelago. L’accesso alle Galapagos è molto limitato. Sono accolti solo 200.000 turisti l’anno. Si può risiedere sulle poche isole abitate o effettuare una crociera in barca. A terra bisogna rimanere in gruppo e seguire i sentieri tracciati. Ovviamente non si possono lasciare rifiuti, non si può dare da mangiare agli animali, non si può fumare. La violazione di queste regole comporta l’incorrere in gravi sanzioni.

Salpiamo subito per Las Bachas. E siamo subito in Paradiso. Una baia dalle acque cristalline. Pellicani che si tuffano davanti a noi per catturare i pesci. Granchi sugli scogli ed iguane sulla spiaggia!
Julio ci accompagna attraverso un sentiero che costeggia la spiaggia e ci fa vedere il perché questo posto si chiami bachas. Dopo il relitto incappiamo in una classico avvallamento segno che una tartaruga di mare ha deposto le sue uova nei pressi. Poi arriviamo ad una piccola laguna con dei fenicotteri rosa. I fenicotteri rosa non sono comuni alle Galapagos. Ci sono solo qui e nell’isola di Floreana.
Tornati alla spiaggia dove eravamo sbarcati ci godiamo il mare ed il sole.
Quando risaliamo a bordo l’equipaggio ci accoglie per un cocktail di benvenuto e per le presentazioni di rito. Le cabine hanno due cuccette a castello ed un bagno con doccia. C’è anche un armadio. Siamo più che comodi. Le navigazioni saranno sempre notturne. Non è il massimo per un riposo tranquillo, ma le distanze sono notevoli e solo così si possono ottimizzare i tempi.
La meta del giorno dopo è la lontana e disabitata isola di Genovesa. Navighiamo tutta la notte per arrivare esattamente alle 6 del mattino, orario previsto per la nostra escursione a terra. Le Galapagos sono isole vulcaniche e Genovesa incarna alla perfezione questa origine. Gettiamo infatti l’ancora in una caldera allagata dal mare. Emergendo dalle cabine – dopo una notte in bianco per rumore e rollio – il colpo d’occhio su queste pareti a picco sul mare che ci circondano da ogni lato è stupefacente. Bando alle ciance, indossiamo i giubbotti salvagente e saliamo sui due tender per sbarcare. C’è una scala scavata nella roccia che permette l’ascesa all’isola. Ma siamo all’alba e sul gradino in basso dorme un lobo marino (li chiamano leoni marini, ma in realtà sono otarie). Non vuole spostarsi ed allora uno dei ragazzi dell’equipaggio lo costringe ad allontanarsi gettandogli dell’acqua davanti. Il lobo non gradisce. Gli animali delle Galapagos hanno conosciuto l’uomo solo in tempi recentissimi e non sono abituati a temerlo. Mentre normalmente gli uccelli volano via quando ci si avvicina loro, qui non scappano affatto. E’ una atteggiamento stupefacente, che richiede una notevole dose di attenzione da parte nostra. Siamo spesso tentati di avvicinarci troppo, per scattare una foto in primo piano finanche col cellulare. Julio ci invita quindi ad essere cauti, perché se infastidiamo gli uccelli e li induciamo ad abbandonare un nido con le uova, poi loro non torneranno a covarle.
Il sentiero dove possiamo camminare si dipana sulla cima piatta dell’isola tra arbusti e piccoli alberi. Siamo letteralmente circondati da due specie di sule. A terra nidificano le sule pata negra, le sule dalle zampe nere (Sula granti). Se ne vanno in giro camminando, ti incrociano sul sentiero, si fermano, ti guardano… e restano così finché non cedi loro il passo! Sugli alberi invece nidificano le sule pata rocha, le sule dalle zampe rosse (Sula sula) che personalmente reputo più belle delle pata negra. Il pomeriggio sbarchiamo sulla spiaggia. Anche qui effettuiamo una escursione tra lobos che sonnecchiano sulla rena, iguane di mare, granchi e nidi di fregate. Bisogna essere sempre vigili con i lobos. Se ci si avvicina troppo possono mordere.

Dopo una notte meno in bianco della precedente, arriviamo all’alba all’Isla Bartolomé, dove c’è uno dei bei posti delle Galapagos, l’isola è piccola e brulla ma questo suggestivo promontorio che si protende verso la Isla Santiago merita l’ascesa al mirador. Dopo esserci goduti il panorama ritorniamo ai tender, per scoprire che sugli scogli ci attendono una coppia di pinguini. Quelli delle Galapagos sono gli unici pinguini che vivono all’equatore. Julio, la nostra guida, ci spiega che esiste una corrente australe di acqua fredda che ne ha permesso l’arrivo. La colonia non è numerosa – anche se ultimamente si è allargata (leggete qui) – e ci dice Julio che bisogna essere fortunati per vederli. Questo evidentemente è l’anno giusto, o noi siamo molto fortunati, perché nuoteremo in compagnia dei pinguini sia la mattina che il pomeriggio. Quelli delle Galapagos sono piccoli, una cinquantina di centimetri di altezza. Solo quelli australiani sono più piccoli di loro.
Dopo colazione sbarchiamo in questa magnifica baia. L’acqua è cristallina ed i due pinguini di prima nuotano da un lato all’altro per pescare. A terra, come in tutte le spiagge delle Galapagos. Andiamo a circumnavigare il grosso sperone roccioso. Sott’acqua ci sono anemoni, stelle marine e grossi pesci colorati. E qualche lobo che nuota.
Dopo pranzo sbarchiamo a Sullivan Bay, Isla Santiago. Per prima cosa ci avventuriamo in un’escursione su un letto di lava abbastanza recente, centotrenta anni circa, quando scorre questa lava è molto fluida e quindi ingloba molta aria. Ragion per cui una volta solidificata risulta molto porosa e leggera. E’ uscita una giornata splendida ed il sole brilla in cielo. Torniamo agli scogli e troviamo una nuova coppia di pinguini, fatte quel centinaio di foto sia con le reflex che con gli smartphone finalmente è ora di un bagno. Soliti maschera, boccaglio e pinne e la scena che mi si presenta una volta in acqua è: enorme tartarughone marino intento a brucare le alghe sott’acqua. Pinguino che nuota a pelo d’acqua. Altri due pinguini che lanciano richiami dagli scogli.

Poi la nave riparte per raggiungere l’Isla Santa Fè. In realtà facciamo sosta all’alba presso una coppia di isole di fronte Santa Cruz, chiamate Plazas Sur. Su queste isole, oltre ad una colonia di lobos, vivono delle iguane terrestri. Queste iguane si nutrono di cactus, delle loro foglie e dei loro frutti. Uniche al mondo, sono in grado di mangiarne addirittura le spine. Non si arrampicano sulle piante però. Attendono pazientemente che il loro cibo cada a terra.

Julio ci spiega che a differenza delle iguane di mare, che hanno una coda piatta che permette loro di nuotare, queste ne hanno una tondeggiante e quindi non possono muoversi in acqua. I due tipi di iguana appartengono a specie diverse e quindi non si accoppiano tra loro. Anche se ultimamente c’è stata una notevole eccezione e ciò è accaduto. Sono nati una femmina e due maschi ibridi che si arrampicano sui fichi e che nuotano.

Finita l’escursione si riparte per andare all’Isla Santa Fè. Gettiamo l’ancora in una bella baia dove ci portano a fare snorkeling tra le tartarughe marine. Poi ci si prepara per l’escursione. Dobbiamo sbarcare sulla spiaggia di fronte. Dove però è proibito mettere piede in acqua. Il motivo è presto detto. Dato che sulla riva si riposa una colonia di lobos marinos, sotto costa è zeppo di squali in agguato! Roba che a 500 metri ci si poteva fare il bagno, ma qui no!!! Comunque sia, sbarchiamo sugli scogli e gironzoliamo sulla battigia piena zeppa di lobos spiaggiati, impanati di sabbia e sonnacchiosi.

Poi facciamo un giro dell’isola. Qui vive una specie di iguana di terra differente da quella di stamane. Queste iguane sono molto territoriali, per cui se ne stanno ognuna per i fatti propri. Arrivando su una seconda spiaggia incappiamo in un’otaria che non ce l’ha fatta a sopravvivere all’aggressione di uno squalo. Attaccata al ventre è riuscita a portarsi a riva per morire sulla terraferma. La scena ci rattrista, ma sono i ritmi della natura che qui domina sovrana.

La mattina raggiungiamo la Isla San Cristòbal e sbarchiamo sulla spiaggia del Cerro Brujo. Anzi, prima di sbarcare, scorrazziamo sui tender per archi rocciosi e caverne che si aprono sulla punta del promontorio, con il Kicker Rock (la vedete meglio nella foto sotto) sempre sull’orizzonte. Le distanze tra gli estremi di ciò che resta di questa bocca sono enormi e ci danno l’idea della portata delle forze che si sono sprigionate in un remoto passato nelle acque dell’Oceano Pacifico. Il tempo non è un granché. Fa caldo ma il cielo è quasi sempre coperto. Un peccato perché la spiaggia è incantevole ed in pieno sole sarebbe ancora più bella. Questo però alla fine è un dettaglio perché comunque tra sabbia bianca abbacinante, lobos immersi nella sabbia ed un bagno in un’acqua favolosa restiamo più che soddisfatto di questo paradiso.

Nel pomeriggio sbarchiamo sull’Isla Lobos, dove nidificano le bellissime sule pata azûr (Sula nebouxii). Le sule dai piedi azzurri sono indubbiamente tra gli uccelli più belli delle Galapagos. Oltre agli incredibili piedi colorati tra l’azzurro e l’acquamarina hanno la peculiarità di essere monogame. Nel video sopra potete vedere il marito che porta alla moglie i rametti per costruire il nido e attua un’elegante danza per regalarglieli. w.youtube.com oppure attiva JavaScript se è disabilitato nel browser.

Risaliti a bordo ci spostiamo a Puerto Baquerizo. La sosta non è prevista nell’itinerario, ma il comandante dice che dobbiamo rifornire la cambusa. Ora… calcolando che quasi tutto l’equipaggio scende a terra e alla risalita nessuno porta vettovaglie, immaginiamo che sia stata una scusa per una sosta fuori programma. Magari l’equipaggio aveva voglia di mettere i piedi a terra. E sinceramente anche a noi non dispiace farlo, per cui accogliamo con entusiasmo la possibilità di sbarcare. San Cristòbal è una delle poche isole abitate nell’arcipelago. Nella cittadina di Puerto Baquerizo ci sono molti negozzietti di souvenir, qualche ostello e varie agenzie specializzate in escursioni. Facciamo qualche compera e ci rilassiamo tre due chiacchiere ed una birra.
La prima escursione della giornata su Isla Española, a Punta Suarez, ci porta ad incrociare prima grovigli di iguane marine che attendono il calore del sole per entrare in attività. E successivamente piccoli di lobos nati appena il giorno prima che succhiano il latte dalle mamme. I resti delle placente sono ancora sulla rena.

Sull’isola poi non mancano albatros che covano le loro uova e falchi che dominano i cieli. Ah si… e ancora iguane Assistiamo anche ad una scena particolare – è Julio che incuriosito ce ne fa notare l’unicità. Tra gli scogli un airone della lava ha infilzato col becco un fringuello di Darwin e lo affoga prima di mangiarlo. Julio ci dice che la scena è del tutto inattesa ed una volta tornato in Italia l’ho caricata su YouTube per permettergli di poterla condividere con i ricercatori del parco.

 No. C’è maretta nella colonia dei lobos. Un maschio dominante rientra da una nuotata e scaccia i giovani che insidiavano le sue femmine. I quali trotterellano allegramente verso di noi. Che siamo costretti a traslocare per non venir asfissiati dall’intenso odore emanato dai lobos. Ah… mi sa che non ve l’ho detto. I lobos puzzano come pochi. Sarà il grasso, sarà che rigurgitano spesso, sarà l’urina, ma puzzano! Certo non siamo al livello dell’anno scorso alla colonia di otarie di Cape Cross in Namibia, dove ce n’erano a migliaia. Però anche qui, che sono in poche, puzzano. Quindi è meglio stare a debita distanza con teli e zaini.

La mattina sbarchiamo su Isla Floreana, a Punta Cormorant. Julio ci spiega che l’isola prende il nome da Juan José Flores, primo presidente dell’Ecuador, sotto la cui amministrazione l’arcipelago fu rivendicato. Le Galapagos sono famose grazie a Darwin ma oggettivamente sono isole brulle, povere di acqua ed abitate da animali poco attraenti. Erano utilizzate come punto d’appoggio da balenieri e pirati (avete visto il bellissimo film Master and Commander?) ma nessuna nazione le aveva mai colonizzate. Fu così l’Ecuador a farlo, battezzandole Arcipelago di Colón, Arcipelago di Colombo. Cristoforo Colombo, che navigò nell’Oceano Atlantico ma certo non nel Pacifico… Ah, la burocrazia. Inutile dire che nessuno le conosce con questo loro nome ufficiale.

A Punta Cormorant vediamo (da molto lontano) altri fenicotteri rosa e le tracce delle tartarughe marine che da poco hanno deposto le loro uova. Ci spostiamo poi a Isla Santa Cruz, per sbarcare a Puerto Ayora, 5000 abitanti, la metropoli dell’arcipelago. Prima escursione, il Centro Darwin. Il Centro Darwin è in assoluto uno dei posti in cui è più semplice avere una visione globale delle varie specie di tartarughe presenti in tutte le isole. Gli uomini del parco infatti, per evitare che formiche e topi mangino le uova delle tartarughe, le raccolgono e le fanno schiudere nel centro. Poi ad 8 anni riportano le giovani tartarughe nel posto esatto dove avevano prelevato le uova. L’opera è meritoria e fondamentale visto che la popolazione si è contratta da duecentomila unità stimate a ventimila. In ogni isola vivono tartarughe di specie diverse, caratterizzate da carapaci dalle forme caratteristiche.
Il Centro Darwin è molto suggestivo e permette di osservare con facilità le tartarughe. Anche perché in natura questi animali vivono nell’interno delle isole, nelle zone di erba alta, dove se anche fosse possibile andare (ed i turisti non possono andare oltre le spiagge) sarebbe difficile scorgerle. Grazie a Julio abbiamo la possibilità di andare a visitare una fattoria all’interno dell’isola, all’interno della riserva El Chato. Qui le tartarughe sono libere ed immerse nel loro ambiente naturale.

Mentre a Puerto Ayora il tempo era clemente, all’interno pioviggina. Julio ci spiega che è una fortuna, perché è in queste condizioni che le tartarughe sono attive e si nutrono. Così possiamo rimirare questi preistorici giganti brucare l’erba e spostarsi lentissimamente. La cosa stupefacente è che conosciamo pochissimo delle tartarughe giganti. Ne esiste una sola specie alle Seychelles e tutte le altre vivono in queste isole. Nessuno sa esattamente quanto vivano. Si stima sui centocinquanta-duecento anni. Ci spiega sempre Julio che la parte scientifica dell’Ente Parco esiste da una trentina d’anni e quindi si conosce con esattezza l’età solo delle tartarughe più giovani.

Escursione all’alba a North Seymour. Come sempre, ogni volta che sbarchiamo c’è sempre qualcosa di nuovo da vedere. Qui ci attendono le fregate in calore. I maschi gonfiano il gozzo per attirare le femmine. Non sono bellissimi? Tipo noi quando mettiamo delle cravatte sgargianti tarda mattinata abbiamo il volo di ritorno per Quito. In tutta la crociera abbiamo avuto molto tempo da spendere a bordo, proprio per le ferree regole che governano lo sbarco dei turisti nel Parco Nazionale delle Galapagos. Ne ho approfittato per montare con iMovie il video che vedete sotto. Ho fatto tutto sull’iPhone: le foto, i filmati (a velocità normale, con moviola, in timelapse), le transizioni e le scritte in sovrimpressione, la sincronizzazione della musica. Ero molto ispirato… Come raccontavo in precedenza, il vulcano Cotopaxi era eruttato da una quindicina di giorni ormai. Dato che si trova a circa 140 km da Quito, la colonna di ceneri che si alza dal cratere era ben visibile al nostro atterraggio nella capitale.

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